YAMAHA MT-09: Tracer o non Tracer?

E a questo giro suoniamo una sinfonia a tre cilindri.

Salgo in sella, afferro il manubrio e la moto si erge dritta senza il minimo sforzo. Il cavalletto scatta istantaneamente richiudendosi su se stesso. Impugno la frizione: sembra vellutata da quanto è morbida. La moto si avvia al primo colpo. Inserisco la prima con la sensazione di premere il piede su un cuscino, poi mi avvio lungo la strada.
Sono in sella alla Yamaha Mt-09 Tracer, una sorta di portabandiera dell’efficienza tecnologica giapponese.

Da un’altra parte, in un altro momento.
Salgo in sella e per alzare il corpo moto sulle ruote devo agire di forza sul manubrio. Il cavalletto va guidato con il piede fino alla chiusura completa. Serro la frizione con la mano, con uno sforzo che sembra quello necessario a rompere una noce. Alla pressione del pulsante di avviamento, il motore compie tre giri o giù di lì, poi al quarto si avvia. La prima entra con un rumore sordo ed un forte stacco. Infine, mi avvio lungo la strada.

La Tracer offre una posizione di guida distesa, comoda e dal buon confort. La ciclistica scivola bene anche nel guidato allegro pur mantenendo un rassicurante feeling da passista.
La frenata è sicura e composta. Il motore non difetta di nulla: quando apro sul serio, il tre cilindri stende spensieratamente i suoi buoni cavalli. Insistendo di giri non mancano nemmeno l’allungo e la potenza necessarie per divertirsi.
Ma quando restituisco la moto dal concessionario, realizzo di avere il gelo nel cuore.

Da un’altra parte, in un altro momento.
Vedendo la curva avvicinarsi, butto via una marcia, punto il piede e lo utilizzo per proiettarmi sporto in interno curva: gamba, testa, sedere, gomito, mano a spingere sul semimanubrio interno, tutto quello che ho per guadagnare centigradi di piega e scorrere più veloce.
Entro larghissimo e punto immediatamente la corda, come da mia prudente abitudine per uscire stretto. Una margherita, o quella che romanticamente immagino essere una margherita, mi sfiora il gomito.
A metà linea riprendo il gas in mano e mi proietto fuori dalla curva.
Ho ormai dimenticato quel remoto momento in cui ho smesso di guidare e cominciato a giocare al pilota.

Taglio di netto la curva successiva per impostare meglio il tornantino immediatamente adiacente. Punto nuovamente il piede destro, ma lo uso stavolta per saltare in piega nell’altro verso. Il mio telaio pivotless scarta come un fulmine, impostato dal movimento deciso del mio corpo e assecondato dalle sue quote svelte. La gomma posteriore va placidamente in appoggio.
Ancora in piega in uscita di curva, tolgo la mano esterna dal manubrio, la sporgo aperta fuori dalla carena e assaporo la morbida carezza del vento che filtra attraverso il guanto: trascendo anche il gusto di pilotare e assaporo quello del puro contatto con l’aria.

Quel favoloso cavalletto della Tracer, quella splendida frizione e quel gentilissimo cambio non hanno per me il più misero significato, non servono a nulla.
Quel telaio che va bene dappertutto e quel motore che gira allegro in ogni situazione sono scialbi piaceri figli di un tedioso qualunquismo, inutili mezze misure morte ancora prima di essere mai nate.

Fuori dalla curva, il mio 4 cilindri 954 inizia a tirar fuori le unghie. La lancetta del contagiri schizza verso l’alto, aizzata da un aggressività incontenibile ed una frenetica bramosia di giri motore.
Carattere: voglio, desidero e ambisco solo e niente che sia diverso da questo.

Ok, alziamo il ritmo.
Ancora una curva: al rilascio del gas, il 954 perde giri quanto velocemente ne ha chiesti, come si addice ad un vero motore da corsa.
Mi aggrappo alle due dita della mano destra e serro con energia la leva del freno. La Honda non si scompone e rallenta decisa sulla traiettoria impostata fin dentro la curva.
Via due marce, il superquadro sbuffa vorticoso verso l’alto con un latrato. Tengo aperto quello che basta per tenermi in equilibro, ancora una volta scaraventatomi sul profilo interno delle carene. Il gomito esterno sfiora il serbatoio, il tacco destro litiga con la protezione della pompa freno e il casco sfiora l’avambraccio all’altezza del mento, come da scuola Marc Marquez. La gomma posteriore morde l’asfalto fino all’ultimo cm.
Mentre metà del mio cervello resta concentrato sulla manovra, l’altra metà vola impazzito a Guy Martin, quello sconsiderato senza cervello che spolvera i muretti con tuta e casco.
Vicino alla linea di mezzeria, ricompongo la postura e la mano destra conclude la sua azione di chiedere gas.
Motore in coppia, su una marcia. Motore di nuovo coppia, ancora una marcia. I miei orecchi si riempiono del rumore del tornado.
E una.
Taglio la corsia, così da essere in traiettoria per la curva successiva. Via il gas, inversione dei pesi sulle pedane, trasferimento sul semimanubrio opposto, di nuovo in piega e di nuovo gas.
E due.
Fuori dalla curva mi accodo ad un auto che mi precede, valuto spazi e pericoli e la sonnolenta Panda sparisce nei miei specchietti nel giro di un’istante, come non fosse mai nemmeno esistita. Scambio sinistra-destra sulla corsia per la traiettoria più aperta e ancora piega e ancora gas.
E tre curve. E quattro curve. E cinque. E sei. Ancora, ancora, ancora, al diavolo tutto, solo questo mi fa sentire vivo, potrei andare avanti all’infinito, e non vorrei mai fare altro.
12.000 km di strada pregressa e sento di aver raggiunto la sintonia perfetta, la capacità di valorizzare ogni punto forte di Constance e di saper assecondare i suoi difetti: ogni metro percorso è ora un brivido di emozione ed un divertimento senza eguali.

Quando riconduco la bella 954 in garage il mio cuore è una pura esplosione di entusiasmo.

 

Lascia un Commento

Devi aver fatto il login per inviare un commento