“Tsubasa Reservoir Chronicle”

Ho letto il numero 11 di “Tsubasa Chronicle” di Clamp.
Il fatto che citi proprio il numero 11 è legato al tentativo di “recensire” con regolarità qualunque oggetto creativo entri nella mia sfera di influenza, ed in questa sede costituisce niente più che una scusa per parlare di “Tsubasa” in generale, giacchè questo undicesimo volumetto non ha niente di speciale rispetto ai precedenti. Al contrario direi, questo ultimo numero è anche al di sotto della media. I mangaka riusciranno a capire, prima o poi, che gli sport sono attività troppo dinamiche, troppo legate al fattore “movimento” per essere costrette alla staticità di una pagina di fumetto? Non esiste che si possano trasmettere emozioni “dinamiche” attraverso una sequenza di riquadri fissi: un fumetto non è televisione. Ma chi era “Takehiko Inoue” che in manga intitolato addirittura “Slam Dunk” spendeva (giustamente) i tre quarti della narrazione FUORI dal campo di basket, e solo il rimanente quarto in VELOCI cronache sportive?

Ad ogni modo, tralasciamo la Dragon Fly Race di quest’ultimo “Tsubasa” ed allarghiamo un po’ gli orizzonti all’opera intera.
Francamente, dispiace vedere Clamp a questi livelli. Da grande amante di questo artista, devo ammettere con grande rammarico che i bei tempi sembrano essere tramontati. L’intensità di “X 1999”, il dramma di “RG-Veda”, l’eleganza di “Clover” e lo stile “kawai” di “CardCaptor”: niente di tutto questo è stato ereditato in “Tsubasa”.
Anzitutto, da’ pesantemente fastidio come il motore della vicenda (la ricerca delle piume di Sakura) si concretizzi in un elemento di stampo numerico (n° delle piume trovate), come se l’esigenza di fare del manga una serie televisiva avesse obbligato a dargli uno stile ad episodi autoconclusivi, che è quanto di peggio si possa chiedere alla trama di una buona opera: così facendo si riempie la narrazione di episodi inutili, gratuiti e fini solo a se stessi, ma si ha il vantaggio di poter tirare per le lunghe a tempo indeterminato, forse per la necessità di elaborare, nel frattempo, un finale non pensato in fase di prima stesura. Alla faccia della coerenza narrativa.
Anche in Sakura, la ricerca delle carte dava obbligava all’autonclusività, ma in tale manga il numero delle carte godeva immediatamente dell’attributo di finitezza (e limitatezza), in “Tsubasa” è già possibile pronosticare l’odioso stratagemma “Inuysha” della Takahashi: le schegge della sfera verranno ritrovate tutte quando l’autrice si stuferà dei personaggi e deciderà di darci un taglio netto. (Nota di sarcasmo: proprio quello che io chiamo “cammino dell’eroe”!).

Dispiace inoltre che della buona caratterizzazione dei personaggi non si sia fatto tesoro: benchè elementare, in “CardCaptor” tutti i personaggi avevano la loro peculiarità ed il loro confronto dava vita a scambi semplici ma graziosi e delicati. In “Tsubasa” abbiamo attinto a piene mani solo dal mondo della stereotipata banalità e del melenso senza limiti: il rapporto Shaoran-Sakura è oltraggioso nei confronti dell’intelligenza dei lettori.

Dispiace che lo stile grafico di Apapa abbia avuto questo colossale decadimento. Nel web si vocifera che la cosa sia imputabile a motivi di salute, pertanto il mio grande rispetto nei suoi confronti la solleva da qualunque nota di biasimo. E ad ogni modo, Apapa è ancora anni luce avanti ad Igarashi.

In ultima analisi, la grande carta a favore di Tsubasa: il doppio filo con “XXXHolic” da una parte, la consacrazione definitiva del Clamp Universe dall’altra.
Il doppio filo con “Holic”, l’intrecciarsi cioè dei fumetti a spin-off e crossover multipli sulle pagine di entrambi, è una trovata quantomeno originale e sulla carta arrichisce un manga che non ha molti altri punti di forza. Il filo multidimensionale con tutti gli altri fumetti di Clamp è un’estensione della stessa idea ed una trovata artistica di enorme valore, perchè conferisce coerenza artistica all’INTERO percorso fumettistico ventennale di Clamp. In pratica Ohkawa non ha fatto altro che porre in contatto tutte le altre serie precedenti e farle convergere in “Tsubasa” con una semplice idea di trama: lo stesso individuo (personaggio) può esistere in diverse dimensioni ed in diverse realtà. Grazie a ciò Ohkawa-sensei è stata in grado di porre sotto lo stesso comun denominatore storie che non avevano niente a che vedere le une con le altre e ha creato un fumetto in cui ogni capitolo è un fumetto stesso, giustificandone l’autonclusività con la multidimensionalità degli individui. (In realtà più volte i personaggi di una serie erano entrati in contatto con quelli di un’altra, e per questo era stata coniata l’espressione “Clamp Universe”, ma si era sempre trattato di episodi molto particolari. Con “Tsubasa” e la già citata multidimensionalità dei personaggi, il Clamp Universe vede la sua ufficializzazione e addirittura una sua legittima e verosimile, in termini fumettistici, giustificazione narrativa).
Questa è l’unica Ohkawa di Clamp che io conosco.
Anche Matsumoto Leiji aveva provato qualcosa di simile, ma Leiji era stato indubbiamente favorito dall’ambientazione, sfondo comune a tutte le sue opere.

Quello che mi fa veramente sorridere è un’ultima considerazione. Siamo partiti dicendo che “Tsubasa” non ha la minima coerenza di trama con se stesso, e siamo arrivati a sostenere che lo stesso “Tsubasa” è il pilastro unificativo su cui si basa la coerenza del fumetto composto più complesso mai realizzato.
Tutto ciò, come è mai possibile?

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