Quello che segue è una specie di racconto che, travolto dalla passione per le moto e per Mars, scrissi al volgere del secolo scorso.
Il progetto, inizialmente, non era particolarmente ambizioso: si trattava di una fanfiction come tante. Preso però dall’entusiasmo di descrivere cosa si prova in sella, finii per trasformare il gioco nel più complesso portabandiera del mio stile. Per tale ragione, R.A.C.E. venne alfine promosso come mia opera ammiraglia. (“Con esso ho toccato il mio massimo e sparato tutte le cartucce: non so scrivere meglio di così”). Nel corso degli anni il racconto è stato leggermente aggiornato, corretto e limato per rimanere al passo con i tempi ma è stato anche il veicolo di un mio piccolo cruccio: sarebbe meglio che un’opera ammiraglia stesse in piedi sulle proprie gambe invece che basarsi sui personaggi di un altro autore. In poche parole, ho sempre trovato che la forma di fanfiction non ne valorizzasse più di tanto l’aspetto narrativo.
Ebbene, sono giunto alla conclusione di chiudere la questione una volta per tutte.
Basta moto, basta corse, basta soggettive. Oramai sono padrone di quel genere. Basta fanfiction, basta aggiornamenti. La storia di R.A.C.E. finisce qui, è tempo di andare avanti. All’ultima rilettura mi sono infatti reso conto per la prima volta che c’erano un’infinità di cose che potevano essere migliorate. R.A.C.E. ha quindi visto il restyling più grande dalla sua generazione ed il restyling che si intende conclusivo della sua opera di aggiornamento per sopraggiunti limiti di sviluppo. Tuttavia, quando un restyling non basta più si fa un nuovo modello e si correggono tutte le limitazioni del precedente: alla conclusione di Selem ci sarà un passaggio del testimone.
La pubblicazione sul Diario Recensivo, infine, per suggellare la forma ultima della mia fanfiction di lunga data.
Raging And Captivating Energy
Incontrare i propri eroi, i propri beniamini, rimane spesso un sogno per tutta la vita.
Io ho avuto, invece, questa enorme fortuna…
FIRST LAP
Iniziai ad avere caldo, seduto su quella sedia nel box Honda, con la tutta addosso ed il casco poggiato sulle gambe. Mi alzai; con qualche difficoltà più del solito a dire il vero, vista l’armatura di pelle che indossavo e che m’impacciava un po’ i movimenti. Mi feci strada tra i meccanici ed i tecnici che andavano su e giù per il locale, dirigendomi verso l’esterno in modo da prendere un po’ d’aria, con la speranza di riuscire a rilassarmi. Fu inutile cercare un po’ di fresco fuori, il sole batteva con tutta l’intensità che ci si aspetta da una bellissima giornata d’estate. Guardandomi intorno, lo stesso lavorare frenetico che avevo lasciato all’interno del box: persone che facevano la spola tra il muretto dirimpetto la pista ed i garage, giornalisti pronti con telecamere e macchine fotografiche e tecnici impegnati in operazioni che avevo sempre sognato di vedere da vicino, ma che ora la tensione mi impediva di seguire con attenzione. Fino al giorno prima avevo ammirato quelle cose in televisione, poi, da un istante all’altro, eccomi immerso in quella dimensione. Non avevo bisogno di convincermene, felicità e paura erano sensazioni troppo reali, vive dentro di me, dimostrazione sufficiente che ero sveglio e cosciente. Tuttavia impugnai più saldamente il casco con le mani, come cercando di riprendere il controllo di me stesso in uno strano sogno, e me lo poggiai al petto, chinando lo sguardo fino a potermi specchiare sulla visiera traslucida.
In quella visiera scura i miei pensieri si persero per qualche momento in ricordi del giorno prima.
– Alberto, una telefonata per te!
E subito dopo avevo posato la rivista che un momento prima stavo sfogliando ed ero corso ad impugnare la cornetta.
– Pronto.
– Ciao Alberto.
Mi giunse all’orecchio il suono di una voce suadente ed affabile, sicura di sé e delle sue motivazioni.
– Ti chiamo dalla HRC per proporti un’offerta che credo potrebbe interessarti…
– Dalla Honda Racing Corporation? – Chiesi con tono piuttosto incredulo – Mi dica…
– Tra poco più di 24 ore si correrà il Gran Premio. Tu sei invitato a partecipare con la nostra seconda NSR 500 2t.
La proposta fu avanzata così: in poche stringatissime parole. Un discorso che durò pochi attimi ma che alcune persone aspettano senza successo di sentire per una vita intera.
– Con una NSR 500? La quattro cilindri più volte campione del mondo con 200 CV? – Risposi.
Pensavo ad uno scherzo ovviamente e neppure molto credibile, ma quando si tratta di motori le parole mi escono di bocca senza che io abbia la minima possibilità di rendermene conto.
– Esatto, quindi accetti?
– Aspetti un momento, non può essere vero, come mai Honda sarebbe interessata a far correre me nel Gran Premio di domani? E su una NSR 500 poi! – Decisi di stare al gioco, in fondo trovavo divertente fingermi pilota professionista di supersport con quello sconosciuto, tuttavia rimaneva la convinzione che qualcuno volesse divertirsi alle mie spalle…
– Se vuoi assicurati che questo sia uno scherzo, ebbene, non lo è… –
Mi lesse come nel pensiero e questa sua risposta mi colse del tutto impreparato e già il dubbio, e forse la speranza, che quello sconosciuto parlasse sul serio iniziavano a farsi strada in me.
Non sapendo più cosa ribadire o come comportarmi balbettai una semplice domanda:
– Si, ma perché?
– Tu quanti anni hai? 20, uno in meno del campione del mondo, ma altrettanta esperienza nel campo delle corse. Ora ti viene offerta la possibilità di correre nella classe regina. –
Era terribilmente convincente.
– Ma io non sono in grado di usare una NSR 500 e non ho mai guidato niente di paragonabile!
Ma cosa stavo facendo? Stavo dicendo di no ad un’occasione che non si sarebbe mai più ripetuta durante il corso della mia esistenza? Esattamente: stavo rifiutando. Stavo cercando di fuggire da una responsabilità dai risvolti opprimenti, ma quanto mai irripetibili. Tuttavia non avevo fatto i conti con la forza di persuasione dell’altro interlocutore.
– Significa che non vuoi partecipare? – Il suo tono si fece canzonatorio per un attimo.
– Eppure molti campioni della velocità hanno iniziato correndo outdoor. Inoltre reputi infondata la fiducia che la stessa Honda nutre nei tuoi confronti?
– No… io… va bene… cosa devo fare?
– Niente, pensiamo noi a tutto.
E sul serio si presentarono a casa mia, con un dispiegamento di forze degno solamente del più inverosimile degli scherzi: nel giro di poche ore prendeva corpo quello che un sogno non poteva più essere.
La mia immagine riflessa sul casco riacquistò lineamenti più definiti ed ebbi nuovamente coscienza del presente.
Sentii ancora quel nervosismo che durante i pochi istanti prima ero riuscito ad assecondare: tensione, paura, agitazione, come i momenti prima di un importante esame scolastico. Sai che è una prova importante per te e l’incertezza di poter far bene o di poter far male ti opprime. Le personalità più emotive, poi, si trovano ancora più a disagio, perché in casi come questo si rendono conto di nutrire più paura nei confronti di se stessi che non dell’attenzione dei milioni di sguardi che sono rivolti loro.
Sembrava di rivivere il primo giorno che avevo corso nel cross, ma in quel momento ogni sensazione mi investiva come amplificata decine e decine di volte; è incredibile come lo stesso ambiente che ti circonda sia in grado di condizionarti, o forse è proprio quest’ultima convinzione ad offrirti una visione completamente diversa della realtà: calamitare lo sguardo di poche decine di appassionati quasi nascosti, immerso nella natura, oppure al centro dell’attenzione di milioni di persone, in un luogo in cui qualsiasi cosa che ti circonda è fatta per permetterti di portare a termine quel compito che tanto ti spaventa. L’unica cosa che potevo fare in quel momento era muovermi un po’ e continuare a pensare a tutto questo, quindi mi alzai dal muretto cui mi ero appoggiato e rientrai nel box, non sapendo proprio dove altro andare.
I meccanici dovevano essere a buon punto con la moto. Ebbi questa sensazione perché mi sembrò che il ritmo con cui correvano per il box fosse diminuito, ma, ancora una volta, non sarei riuscito ad osservare con attenzione a che punto fossero. Probabilmente anche per loro non doveva essere facile assecondare la tensione, un mio fallimento in pista per una noia meccanica e quale delusione per loro, dopo tante ore perse a mettere a punto, a calibrare, a misurare, a tarare, a rendere tutto perfetto. Quest’ultima è una specie di legge, di regola non scritta delle corse, una delle poche delle quali ero sempre stato consapevole. Una stretta collaborazione è molto importante, quantomeno vitale, e se gli uni non danno il meglio di sé per gli altri, è del tutto inutile sperare che la fortuna ti arrida e ti porga un posto sul podio: non succederà mai. Le corse sono come una gabbia di leoni: entrare in gioco significa rischiare tutto e nel migliore dei casi pareggiare il conto. In pista la sorte è solo sventura e la sua unica forma di carità si concretizza solamente nel duro merito che ti sei costruito, nel merito di essere tanto forte da far si che i leoni si sbranino tra loro invece che indirizzare il loro interesse verso di te.
Vedendomi rientrare alcuni membri del personale mi guardarono per qualche impercettibile istante, ma distolsero immediatamente lo sguardo. Ne fui contento, non avrei voluto parlare con nessuno, non avrei voluto che qualcuno tentasse di distrarmi. No, non mi è mai piaciuto in questo tipo di circostanze dimenticare le preoccupazioni per qualche istante e poi sentire la sferzata che ti infliggono tornando a pensarci. Forse capivano questo mio atteggiamento, ma più probabilmente qualcuno aveva detto loro come comportarsi nei miei confronti.
Per non sedermi nuovamente sulla sedia di prima e ricominciare a soffrire il caldo, mi recai nella parte più profonda e nascosta del locale, dove avrei incontrato per la seconda volta la “mia” NSR.
Appena arrivato nei pressi del circuito avevo chiesto di poterla vedere e ne ero stato immensamente felice, euforico, entusiasta e fiero.
Da sempre avevo pensato che le 500 GP rappresentassero la quintessenza delle moto da corsa, delle supersport, e tutt’ora condivido a maggior ragione quest’idea. Allo stesso modo, è luogo comune pensare che la NSR 2t rappresenti la quintessenza delle 500 GP.
Quando sai che puoi vedere da vicino un oggetto di questo tipo non pensi altro che di aver realizzato un sogno, di essere incredibilmente fortunato, ed insisti perché questo contatto avvenga prima possibile. Ma non può durare per sempre: al momento della corsa la vicinanza di una moto come quella iniziava a farmi un effetto diverso rispetto all’incontro precedente. Tutta la sua magnificenza mi pesava fino a soffocarmi ed il dubbio che forse non sarei riuscito a valorizzarla era opprimente.
Conoscevo bene le linee di quella carena ma ancora non mi ero abituato alla colorazione: mai mi era capitato di vedere una NSR verde e viola. Quella livrea, tuttavia, non mi dispiaceva affatto, anzi, quei due colori che da sempre considero i miei preferiti non potevano che costituire un motivo di conforto in quella forma di straniamento che provavo.
Prima che potessi fissare ulteriormente la mia attenzione su qualche altro particolare, un uomo entrò con passo trafelato in evidente stato di agitazione:
– Trovato… lo abbiamo trovato! – Ansimò, avvicinandosi ad una sedia e mostrando un foglietto che stringeva in mano.
Si sollevò un intenso mormorio tra il personale che mi circondava ed ognuno interruppe la mansione che stava svolgendo. Tutti i presenti si avvicinarono all’individuo che aveva appena varcato la soglia e che adesso stava riprendendo fiato.
– Allora, ha partecipato alla 4 ore di Suzuka classificandosi primo, mentre l’anno scorso ha partecipato alla 8 ore. E’ stato squalificato, ma solo dopo aver tagliato il traguardo in prima posizione!
Anche io mi avvicinai al gruppo di persone per ascoltare meglio e per capire cosa stesse accadendo. Udito questo brillante curriculum mi affrettai a chiedere ad un meccanico accanto a me chi fosse l’individuo in oggetto alla conversazione. Mi rispose di sfuggita, mentre cercava di osservare al di sopra del capannello di persone.
– Si riferisce all’uomo della Yamaha, a colui con cui ti devi confrontare…
“Confrontare?”
Fui colto più che alla sprovvista e mossi mezzo passo indietro. Nella mia ingenuità non capivo perché doveva esserci qualcuno che potesse essere considerato mio diretto avversario. Non ero forse iscritto ad un Gran Premio? Non dovevo io pensare di arrivare davanti a tutti? Il secondo non è forse il primo dei perdenti?
Ulteriormente tormentato da questi nuovi dubbi mi distaccai dal gruppetto di persone e mi guardai intorno, cercando qualcuno a cui chiedere cosa stesse succedendo.
Nessuno intorno a me.
Oltrepassai la paratia e mi riportai nella zona antistante il garage e lì individuai chi avrebbe potuto aiutarmi.
– Ascolti, lei mi ha chiamato e permesso di essere qui, ma che significa che c’è uno con cui mi devo confrontare?
– L’uomo della Yamaha, altro iscritto alla GP2. E’ stato convocato per le stesse ragioni che hanno condotto qui te. Grazie all’introduzione delle due classi nel regolamento, voi appartenete ad una gara nella gara. Chi di voi vincerà avrà la possibilità di far vedere cosa è in grado di fare e di aprirsi le porte giuste nel mondo della velocità…
Abbassai lo sguardo. Non avevo pensato ad una cosa del genere e non mi aiutava il fatto di averla scoperta poco prima di scendere in pista. Un confronto diretto, un nuovo impegno cui ero chiamato, una nuova difficoltà. Ma forse non avrei mai accettato di correre se il giorno prima avessi saputo una cosa del genere. No, non lo avrei mai fatto, sicuramente.
Vedendo adombrarsi il mio viso tentò a suo modo di farmi coraggio.
– Ti piace la colorazione che abbiamo adottato per la tua NSR? Abbiamo saputo che quelli sono i tuoi colori preferiti.
– Si, la ringrazio, è molto bella – Risposi quasi con un sussurro.
– Me ne compiaccio. Tuttavia speriamo più che altro che ti aiuti a sentirti fiero di quello che fai. Non hai dovuto correre nelle qualificazioni e ti è stata confezionata una tuta di cui vai sicuramente fiero, vero… Ali?
Provai un’improvvisa nota di stupore: sapeva tutto di me. In quell’universo, l’unico a non avere la percezione e la consapevolezza degli eventi ero soltanto io: non avevo minimamente notato tutti gli sforzi che erano stati fatti per mettermi a mio agio, il comportamento dei meccanici nei miei confronti, la moto, i colori, la tuta con il mio alter-ego.
Il pensiero che il team mi fosse così vicino servì a darmi un po’ di conforto.
– Mmh, ok, mi dice il nome del mio rivale? – Mormorai.
– Certo, lo hanno appena reso noto. Ha 18 anni e si chiama Rei Kashino.
“Kashino…?”.
“KASHINO?”. Quel nome echeggiò più volte nella mia testa ed io mi sentii risucchiato in un immenso vortice.
“Sono perduto, non ho la minima possibilità di vincere contro Kashino”.
Questo pensai mentre sgranavo gli occhi e mentre un brivido gelido mi percorreva la schiena. Partecipare ad un Gran Premio è un’emozione in qualunque istante, sia sulla pista che al di fuori di essa. Anche questo è un particolare che non dimenticherò facilmente.
Nei momenti successivi rivissi le sensazioni che prima avevo provato con la NSR. Quando leggi qualcosa su di lei oppure ne senti parlare ti dici sempre: “Non so cosa darei per provarla” ma, quando sai che con lei devi raggiungere un difficile traguardo, l’emozione passa e l’esperienza diventa realmente diversa da come te la aspettavi. Nei confronti di Kashino non era diverso: quando leggi quello che la Soryo dice di lui vorresti tanto conoscerlo e saresti disposto a fare qualunque cosa, ma quando scopri che il tuo incontro si realizza mentre siete avversari…
Questo pensiero mi fece probabilmente toccare il fondo e, come mi è successo qualche altra volta, trovai d’improvviso un coraggio insperato.
“Adesso basta, non mi interessa di correre contro Kashino nella GP2 o qualsiasi altra cosa. Correrò su una 500 ed è una cosa che ho sempre desiderato fare. Correrò su una NSR, la 500 due tempi che considero migliore del mondo, mentre Rei ha con sé una YZR, la turbo. Succeda quel che deve succedere: se andrà male me ne tornerò a casa con un ricordo indimenticabile. A casa, dove mi aspettano le mie vincenti ruote tassellate”.
In un momento avevo trovato un improvviso entusiasmo ed un’improvvisa voglia di salire in sella e correre, non per vincere, ma per divertirmi con una moto che forse non avrei mai più rivisto in vita mia.
In un attimo avevo smesso di pensare a tutto il resto e di esser vittima di tutti quei timori, ma sapevo che non avrebbero tardato molto a farsi di nuovo avanti. Guardando l’orologio, però, una fortuna inattesa: l’ora di presentarsi sulla griglia, ed infatti voltandomi indietro, in direzione della paratia, il team mi stava portando la moto. Mi affrettai verso di loro, volevo io stesso portarla fuori dal garage e salirci sopra prima possibile. La presi dalle mani di un meccanico e la spinsi fuori dal garage. Era leggera e tenerla salda tra le mani era agevole, l’esatto opposto delle moto che avevo spinto fino a quel giorno. Oltrepassando la soglia della serranda metallica vidi che altri piloti si stavano accingendo a salire sulla loro 500, altri che venivano spinti perché il motore prendesse vita ed altri che mi passavano vicino, già pronti a prendere la striscia di asfalto che si erano meritati lungo il via. Vidi le tribune affacciate sul tracciato gremite di persone e la cosa, stranamente, contribuì ulteriormente al mio entusiasmo: “Siete tutti qui per me, vero?”. Non era vero affatto, ma è insospettabile quanto lo stesso entusiasmo talvolta ti condizioni, ti impedisca di vedere come stanno veramente le cose e te le presenti come vorresti che fossero.
Salii sulla tanto sospirata NSR e mi voltai indietro sorridendo, in cerca di qualcuno che aiutasse anche me a prendere il via. Mi risposero anch’essi con un sorriso ed una persona si fece avanti. Infilai il casco, mi appoggiai sui semimanubri, sentii la spinta e, con un po’ di gas, il motore prese vita, con una melodia che non ricordo di aver mai più riascoltato altrove, seppur in quel momento il languido suono mi arrivasse smorzato per via del casco. Per un istante mi sfiorò il pensiero che tutto ciò era forse sulla via dell’estinzione, per via delle nuove e più moderne, ma quasi asettiche, 4 tempi.
Un attimo dopo ero alla mia posizione sulla griglia, pronto per il giro di ricognizione.
Durante questi momenti di sospensione la stampa audiovisiva è solita mostrare al pubblico una veloce carrellata dei partecipanti alla corsa. E come avrebbe potuto la telecamera non mostrare ai milioni di telespettatori connessi in quel momento la scheda del secondo pilota più giovane impegnato in quella gara? Tentai di sorridere, e lo feci abbastanza naturalmente, ma sentivo chiaramente che più si avvicinava il momento della partenza più il nervosismo tornava, soffocando istante dopo istante il mio entusiasmo.
Il cameraman si spostò al pilota accanto a me ed io lo seguii con gli occhi, fino ad incrociare la Yamaha con cui condividevo la fila.
Una YZR 2t.
Quale coincidenza.
Quello era Kashino.
Non volli farmi vedere da lui con gli occhi rivolti alla sua persona, quindi distolsi immediatamente lo sguardo, pur non avendo egli dato il minimo segno di avermi notato.
“Forse anche lui è nervoso quanto o più di me… ” pensai.
Seguirono altri momenti di vuoto, momenti che cercai di sfruttare concentrandomi sulla moto, poi il segnale intimò agli estranei di abbandonare la pista per l’imminente giro di ricognizione.
“Allora, dovrò effettuare la cambiata quando me lo segnala questa spia qui”.
“Spero sia vero che poi inizierò a sentire il momento giusto solamente ascoltando…”.
“Questa frizione è così morbida… se penso che deve tenere a bada 200 cavalli!”.
“200 cavalli, più ci penso più sento i brividi scuotermi…”.
La ragazza che fino a quel momento mi aveva tenuto coperto con l’ombrello se ne andò. L’ombrellista era stata certamente una ragazza molto graziosa, le corse sono perennemente sature di questi miseri espedienti per il comune pubblico. Tuttavia io non pensai nemmeno per un momento di rivolgerle uno sguardo: io ero troppo emotivamente legato alla mia NSR, con il pensiero mi perdevo nei suoi strabilianti numeri e niente in quel momento avrebbe potuto distrarmi da essa. In pratica sognavo ad occhi aperti, cosa che faccio tuttora: “Non chiedere a me se sei uno scrittore, se ti alzi la mattina con la voglia di scrivere, vuol dire che sei uno scrittore”. Ho sentito questa frase in televisione e l’ho fatta mia perché la condivido in prima persona: allo stesso modo io mi sveglio la mattina e mi sussurro “I cavalli sono veramente la cosa più bella del mondo… Di più, ne voglio di più, sempre di più! Voglio correre, andare forte, più forte ed ancora più forte!” .
In quel momento mi trovavo sopra al veicolo che meglio di qualunque altro in diecimila anni di storia mi avrebbe permesso di assecondare questa mia incontenibile cupidigia, capite cosa ciò potesse significare per me?
Quando si aprì il via del giro di ricognizione i piloti si portarono lentamente all’ingresso della prima curva, della seconda e così via, fino alla conclusione del tragitto. Quel giro non fu piacevole per me, trascorse lento e faticoso. Decisi di percorrerlo con calma, senza incorrere in rischi inutili, senza voler sorpassare nessuno. Andando così piano la moto non sembrava affatto agile come quello che mi ero aspettato da una 500 Gran Premio. Quando ritornai alla mia posizione di partenza, benchè avessi percorso niente più che poche curve, i polsi già mi facevano male per l’assetto caricatissimo in avanti: cosa sarebbe stato allora durante la corsa? Non era affatto come avevo pensato, non era un gioco, non era tutto divertimento. L’unica cosa in cui trovavo consolazione, o forse speranza, era di aver consumato quell’unico giro con una minima apertura del gas.
“Maledizione, maledizione, maledizione, che ci faccio qui, con questo ferro che reagisce solo con sforzi così assurdi?”.
“Cosa ci faccio ripiegato come un manichino su dei manubri come questi che mi spezzano i polsi?”.
“Questa postura costrittiva è odiosa! Io che sono votato alla libertà, che adoro quei manubri larghi con cui le mani toccano il cielo nei salti… perché, perché ho voluto un mezzo del genere?”.
Questo pensavo nel profondo del mio io, ed ero in collera con me stesso per aver fatto una scelta che ora mi sembrava totalmente insensata. Mi voltai verso Kashino e lo vidi come prima, calmo, disteso. Aveva la testa alzata e lo sguardo rivolto verso una delle tribune… Non mi ci volle molto per capire cosa stesse cercando ed in cuor mio lo ammirai di riuscire ad essere così tranquillo.
Feci un profondo sospiro per calmarmi io stesso e ripetei quella classica regoletta per partire veloci:
“Molli e spalanchi, ma con cautela, rischi di impennare”.
“La prima è in alto, le altre verso il basso”.
Il rosso del semaforo.
Il rosso del semaforo.
Il rosso del semaforo.
Il rosso del semaforo.
Il VERDE del semaforo.
Un rumore assordante riempì l’aria e le 500 si proiettarono in avanti, verso la prima curva.
I primi due giri non pensai affatto di partecipare ad una gara, la mia concentrazione era ancora sulla moto. Replicavo quello che facevano i piloti davanti a me e tentavo di godermi le strabilianti emozioni che ciò che stringevo tra le gambe sapeva donarmi.
E’ difficile tentare di trasmettere questo genere di emozioni, di far immaginare a qualcuno che non ha vissuto l’esperienza cosa si prova in sella.
La partenza non fu un momento così difficile per me, non fu diversa da una partenza al via di una gara di cross, e nemmeno i primi metri, una marcia, due marce e così via. Ma le prime meraviglie vennero all’ingresso della prima curva: un tocco ai freni e la moto rallentava con un’efficacia a me sconosciuta fino a quel momento. Mi sentii letteralmente catapultato in avanti, proiettato con violenza selvaggia verso il plexiglass del mio cupolino, come se un qualcosa dalla ferocia inaudita volesse strappare dalle mie gambe il serbatoio e dalle mie mani i manubri dell’NSR. I polsi mi fecero di nuovo male, un dolore lancinante, una sofferenza che tuttavia interpretai diversamente da prima, ed ero quasi entusiasta che su quella moto non fosse tutto così dannatamente confortevole e perfetto ma che, al contrario, mi lasciasse un segno dentro, il dolore, un ricordo ed un prezzo da pagare per garantirsi il puro piacere di tenere testa alla mostruosa furia di una 500 GP.
Una frenata così portentosa mi sorprese a tal punto che dovetti riaprire il gas anche prima dell’ingresso curva.
E cosa fu dopo quel passaggio… dopo la curva apparve un rettilineo, e senza pensarci la mia mano destra assecondò il folle vizio di cercare sempre il fondo dell’acceleratore: “Ed ora… la rabbia e l’assordante grido di quel motore che possiede l’intima cattiveria che nessun quattro tempi sarà mai in grado di eguagliare!”.
Caricato in avanti per contrastare l’accelerazione, avvertii e compresi finalmente in prima persona cosa significhi essere sospinti dalla Mano di Dio: vidi il paesaggio schizzare via accanto a me, sfrecciare istantaneamente in un turbine in cui i colori si stemprarono ed i contorni si confusero perdendo qualunque forma di definizione.
– Alberto, questa è la tua nuova bicicletta…
E poco dopo:
– Papà, vado da solo, senza ruotine, sono libero!
– La mia prima moto…
E poco dopo:
– Come spinge se spalanco il gas!
La velocità in sé non è niente, ma puoi darle chiara forma tramite quattro cose: l’aria che ti investe, ti sferza e ti opprime, il paesaggio che scorre sempre più velocemente fino a scomparire del tutto, il tuono dei tuoi scarichi che riempie l’aria e la necessità di rendere sempre più fulminee le tue reazioni.
“Io sento tutto questo, ne sono un tutt’uno: correre, correre, correre, posso farlo con questo mio oggetto. Starò davanti a tutti…”.
Avevo la mente piena di pensieri e gli occhi puntati avanti, ma vacui e persi, impegnati a scorrere immagini di ricordi di un tempo remoto. Un suono, un rumore sul fianco sinistro fu necessario per riportarmi alla realtà della gara. Era un rombo, un rumore che conoscevo bene.
Un istante più tardi iniziai ad intravedere una sagoma lungo il profilo sinistro della visiera …
“STARO’ DAVANTI A TUTTI!”.
Ma non ora, non così. E non feci niente per evitare di essere sopravanzato.
La sagoma che avevo intravisto di fianco a me acquistava adesso un profilo più definito e distinsi nella moto con cui stavo andando di pari passo la livrea di una RGV-500. Una Suzuki, una Honda oppure una Yamaha: non faceva alcuna differenza di quale moto si trattasse, io avrei avuto la mia fredda vendetta, dovevo solo aspettare il momento giusto.
Alla curva successiva non sfruttai la posizione interna e anticipai molto la frenata, senza alcuna paura che la RGV staccasse all’ultimo metro e mi tagliasse la strada. All’uscita di curva, infatti, ecco che qualche passo si era interposto tra lei e me.
Sapete perché considero la NSR 500 la regina delle moto due tempi? Perché ogni suo minimo dettaglio, ogni minimo particolare, all’apparenza anche insignificante, è curato in modo maniacale, con il massimo della precisione che l’essere umano sa profondere in qualcosa. Esistono altre moto al mondo che possono vantare la stessa cura costruttiva, ma niente può contrastare il know-how che l’impero Honda ha saputo creare negli anni, il know-how della più grande casa produttrice di motori al mondo.
Sul rettilineo, una NSR ed una RGV spalancarono il gas quasi contemporaneamente. All’inizio del rettilineo, una moto era davanti, l’altra dietro. Alla fine del rettilineo, entrambe le moto erano nuovamente appaiate.
Nella mia testa prese forma il requiem di sconfitta dell’altro pilota: immaginai la sua inquietudine nel veder apparire la sagoma della mia moto nel campo visivo della sua visiera, proprio com’era capitato a me alla curva precedente. Immaginai il suo senso di fallimento, quello che pervade un pilota quando, nonostante il proprio impegno alla guida, è il mezzo stesso a limitarti, è quella moto che senti non atta a dimostrare la tua bravura, il tuo talento, ciò che sai veramente fare. Talvolta ho avuto modo di provare queste terribili sensazioni: sei divorato dalla collera e vorresti distruggere tutto, ma concentrandoti un istante di più comprendi che sarebbe inutile e che è meglio proseguire umilmente cercando di limitare i danni. Ma arrivare ultimi no, non esiste, pur di non dare questa soddisfazione ai tuoi avversari è meglio ritirarsi del tutto a metà della corsa.
“La mia vendetta è compiuta!”. Ed avevo riconquistato la mia posizione.
Ma per un pilota che esce sconfitto da un confronto ce n’è un altro che ne esce a testa alta. Ed anche questa vittoria, questo senso di potere può cambiarti, può renderti temporaneamente diverso. Non sei più la stessa persona che ha iniziato la corsa, però sei quella che la porterà a termine.
Davanti a me c’era ora il vuoto e nel mio campo visivo, tuttavia limitato a poche decine di metri, fino alla successiva curva, non scorgevo nessun’altra moto. Bene. Si, sarei andato a riprenderli, a divorarli, ad aggredirli senza nessuna distrazione, con l’opportunità di potermi concentrare su ogni centimetro di asfalto e su ogni centesimo di secondo guadagnato.
In realtà mi isolai ancora una volta dalla realtà della gara, scelsi di chiudermi in me stesso e di rimanere da solo. Forse ho imparato a farlo anche troppo bene in passato.
Bastava che io guidassi senza distrazioni, l’NSR mi avrebbe portato dove avrei voluto. Arrivavo dolcemente nelle curve con i freni ancora tirati, raggiungevo angoli di piega tali che avrei potuto toccare l’asfalto con il gomito, spostavo il peso del mio corpo sulla sella con eleganza ed armonia. E la mano destra mi rispondeva all’uscita delle varianti: apriva il gas dolcemente, come mai avevo fatto prima, senza inutili sprechi di preziose risorse in termini di gomme. All’accensione del led aggiungevo una marcia, quando vedevo la lancetta del contagiri cadere ne toglievo una o più, senza cercare di tirar fuori l’anima, e la cattiveria, dei miei duecento e forse più afrodisiaci horse power.
E’ vero, il pubblico mi vedeva sfrecciare a punte di 300 km/h ma io non sentivo nessuno fra loro, non sentivo la pressione dell’aria, non prestavo attenzione al rumore cupo e penetrante dei miei scarichi. Pensavo alla mia guida, dolce e proficua. Mi interessava solo far danzare la mia 500 tra i cordoli e andare avanti, per vedere nuovamente la sagoma di una carena in fronte a me e ricominciare così il confronto testa a testa.
Ci fu un momento però in cui percepii un sussulto più intenso proveniente dalla folla che lambiva le recinzioni del circuito. Una specie di grido strozzato, ma più che altro un fremito penetrante, ed alcune persone scattarono in piedi come fulminate dalla vista di un qualcosa che non si aspettavano o che speravano di non vedere.
Fu all’uscita di una curva di cui non ho mai saputo il nome che le carene bianche ed azzurre della RGV sfrecciarono di nuovo sulla sinistra del profilo della mia visiera.
“Povero sciocco, cosa credevi di fare ancora una volta? Non è ancora nato quello più freddo e distaccato di me”.
La RGV di poco prima non correva più, né davanti né dietro a me: ad un’uscita di curva il pilota era stato catapultato via da un azzardo di troppo.
Ma a me cosa poteva interessare? Non era stato tanto semplice rimanere davanti a lui?
Non dovevo io pensare a coloro che mi stavano tutt’ora avanti?
Non dovevo io concentrare tutto me stesso nella frenetica battaglia di sorpassi che, di lì a pochi metri, mi avrebbe investito?
Mai il termine ‘battaglia’ fu utilizzato, però, in modo più improprio. Raggiunsi ben presto le moto che mi precedevano ma non ci fu nessuna battaglia: era un gioco uscire di traiettoria per qualche istante e sopravanzare un’altra 500 nel giro di pochi metri.
Quale delusione: non c’erano emozioni in quegli effimeri momenti di confronto. Emozioni, solo in quell’istante capii che per me non aveva più importanza vincere, volevo solo qualcuno che riuscisse a tirare fuori il motociclista freddo ed irrefrenabile sopito in me. Arrivare secondo in uno scontro arduo ed estenuante avrebbe avuto molto più significato che vincere con esagerata condiscendenza. Invece ero solo, come mai prima d’ora in una gara di fuoristrada. Per tale ragione ritengo che il mondo delle supersport e delle corse su pista asfaltata non sia adatto a me.
“Vi compatisco insignificanti wildcard, a cosa vi serve partecipare se sapete di non avere possibilità di salire sul podio? A cosa se siete coscienti di non poter raggiungere nemmeno la zona punti? Nemmeno siete in grado di rallentarmi, toglietevi di mezzo, e permettetemi di incontrare qualcuno contro cui sia meritevole profondere vero impegno. L’uomo della Suzuki ha avuto il coraggio di chiedere di più di quanto non potesse essergli concesso, perché non c’è lui ad occupare una delle posizioni di voi miseri?”.
Ogni sorpasso trascinava sulla mia bocca una frase di scherno rivolta a quei poveri piloti che, molto probabilmente, si trovavano lì per divertirsi proprio come me, oppure per farsi un’esperienza in nome di un futuro radioso, ma privi della fortuna di poter stringere tra le gambe un prodotto originale Honda, Yamaha, Suzuki o Aprilia.
Man mano che procedevo sulla griglia i tempi si abbassavano ed ogni sorpasso era leggermente più difficile del precedente. Ma questo non poteva fermare il mio tedio ed il ritmo che avevo preso era placido ma inesorabile. Una posizione avanti ed una avanti e la possibilità di vincere non solo nella GP2 ma anche nella GP1 iniziò a balenarmi per la mente.
“Ma… possibile che vincere un Gran Premio sia così semplice?
Posso davvero aspirare a vincere anche con i campioni della GP1?
Si, forse posso”.
No, non potevo in realtà, perché non era destino che io arrivassi a confrontarmi con loro. Il mio nemico doveva profilarsi molto prima all’orizzonte, il mio desiderio di trovare pane duro per i miei denti sarebbe divenuto realtà pochi istanti dopo.
Non notai subito i colori di quella Yamaha, come avrei potuto?
I miei occhi furono improvvisamente catturati da un flash bianco e rosso più avanti, la scia di un movimento così repentino da rendersi appena percettibile. Solo in seguito realizzai che avevo assistito ad un rapidissimo sorpasso. Prima di qualunque altro pensiero i miei occhi identificarono davanti a me la vittima di quella manovra, l’ennesimo ed insignificante pilota privato che mi capitava di incontrare in quella corsa.
Come si comportò quest’ultimo?
Non lo so, non ricordo nemmeno come io stesso cancellai dalla mia visuale quell’ennesima wildcard. So solo che mi sentii divorare dalla curiosità e le diedi sfogo con il solito gesto che ripetei decine, centinaia di volte durante quella gara: diedi fondo all’acceleratore. Ed avrei aperto ancora di più se fosse stato possibile: avrei scardinato la manopola se questo mi avesse permesso di gettarmi all’istante contro quella Yamaha là davanti. Ricordo ad una ad una tutte le volte che in quella gara chiesi il 100% al mio motore con la manopola del gas perché, contrariamente a quanto si dice, ci sono emozioni a cui non ci si può abituare e che una volta vissute non si dimenticano facilmente. Ma c’è una sola rotazione del polso che rivivo sempre con assoluta e totale lucidità, perché ci sono esperienze che più nitidamente di qualunque altra si marcano a fuoco nella tua memoria e nel tuo inconscio, che siano esse piacevoli o spiacevoli, che durino minuti oppure centesimi di secondo.
L’inevitabile risultato di tale forsennato impeto di spingere fino allo stremo mi affiancò ben presto al fantasma della YZR che avevo iniziato a rincorrere alcuni secondi prima.
Io so che in quel momento si accorse di me, perché il suo modo di guidare cambiò repentinamente, da una curva all’altra, e come tale cambiò il suo modo di rimanere seduto in sella: moto praticamente in verticale e corpo sporto pericolosamente al di fuori del profilo della carena, tanto da poter compromettere pericolosamente un precario equilibrio di forze. Ed al tornante successivo sfiorò il cordolo di bordo pista con una precisione chirurgica…
Ma io ero sempre lì e non me ne sarei andato per niente al mondo.
Cercai dapprima di sopravanzarlo con delle semplici manovre, con una staccata più violenta alla chicane, oppure di motore, sul rettilineo del via. Ma alla mia prima manovra rispose sfiorandomi la gomma anteriore, alla seconda con un slaloom irraggiungibile perché io non prendessi la sua scia.
Andava forte quella Yamaha e non era solo merito del pilota…
Ora che la avevo a pochi centimetri da me potei osservare come in realtà quella moto uscisse lenta dalla curve, che fosse l’uomo a dover sopperire ad una certa mancanza di motore, ma era pur vero che nei rettilinei succedeva un qualcosa di magico a quel propulsore, come se prendesse corpo, anima e vita dopo anni di quiete e silenzio. Ed in quel frangente, con quella specie di scoppio dal rumore assordante, nemmeno io potevo riuscire a non perdere qualche metro nei suoi confronti. Stupito da tanta coordinazione, dell’abilità di quella persona di sopperire alle mancanze del suo mezzo, mi chiesi però “Ma quanto potrà riuscire a sopportare questo ritmo…”.
Dubbio inutile. Credo che a quel ‘mio amico’, in realtà, non importasse poi granché di consumare energia o meno, ed infatti alla curva successiva mostrava una tecnica nuova, insolita, appresa forse in Francia con il supermotard, ma più probabilmente in America, con il dirty-track…
“Eppure ho la sensazione di aver già sentito di qualcuno cresciuto in America con le dirty-track…”.
Avrei voluto provare una scorrettezza in quel momento, per metterlo alla prova, per vedere la sua risposta, ma il rispetto che si nutre per un avversario che si è dimostrato veramente meritevole impedisce moralmente qualunque meschinità nei suoi confronti. Vero?
Falso, ciò che mi trattenne era un sentimento più egoistico di quanto possiate immaginare: miravo ad una cosa sola, arrivare prima di quel pilota ed ottenere un successo sfolgorante e privo di qualunque ombra, di qualunque biasimo e di qualunque cosa avrebbe potuto rendermi più semplice ma meno gloriosa la vittoria.
Optai per una distrazione.
Al primo rettilineo che riuscii a stargli accanto mi avvicinai lateralmente al lato destro delle sue carene ed alzai il gomito sinistro facendolo sporgere dal profilo della moto. Non era mia intenzione arrivare ad un vero e proprio contatto, infatti la distanza che avevo interposto tra me e lui non lo avrebbe mai permesso, ma ero curioso di metterlo alla prova, di vedere se si sarebbe lasciato andare allo spavento, se avrebbe esitato o zigzagato per un istante.
Non fece una mossa, non mi degnò di uno sguardo, nulla. Proseguì dritto come su un binario.
“…”.
Se fino a quell’istante ne avevo mai avuto, persi definitivamente il controllo sulla mia persona. In un primo momento percepii qualcosa che mi solcava le guance al di sotto del casco: un attimo di puro smarrimento, ma ben presto riuscii a contenere la gioia, quindi sorrisi inconsapevolmente, benchè al di sotto delle labbra i miei denti si stringessero in una morsa. Non da meno le mie mani, che strinsero con ferocia le due manopole dei manubri, e le mie ginocchia, che si avvinghiarono sui fianchi dell’NSR con un’energia che mai avrei pensato di possedere.
Era una specie di delirio di quelli che ti catturano nel fisico e più profondamente nella sede più irraggiungibile della tua stessa persona, del tuo ego. Per quanto possa provarci non puoi fare nulla per impedire che ti consumi, sempre che tu non decida spontaneamente di abbandonarti al piacere di assecondarlo.
“Oh si… OH SI’! Finalmente qualcuno che non ha paura, qualcuno così fuori di testa da non aver bisogno di provare… PAURA. Tu sei l’unico qui, cosciente e perfettamente consapevole di cosa può fare e di quali sono i suoi limiti, vero? Avanti, dimostralo anche a me, fa’ vibrare il mio animo di voglia di vincere!”.
Era giunta questa scintilla ad animare me stesso e quella nuova gara. Di nuovo non vedevo più nulla, volevo solo divertirmi. Divertirmi però nel senso più estremo per chi sceglie di fendere il vento su due sole ruote: raggiungere la linea di demarcazione che divide il talento dall’imprudenza, oltrepassarla, correre sul filo oltre cui c’è il baratro, scontrarsi contro se stessi, contro i propri limiti, oppure contro la sorte, che su strada, in un suo capriccio, potrebbe nascondere un muro, un ostacolo contro cui rischi di smettere di correre una volta per tutte.
Si corre per vincere.
No, si corre per la competizione, in nome dello sport.
No, si corre per provare emozioni.
No, si corre per trovare qualcuno che ti offra delle emozioni.
E quando hai trovato quel qualcuno?
Ha importanza vincere? Ha importanza correre?
Qual’è la risposta a queste domande? Tuttora mi è difficile trovarne una soddisfacente, figuriamoci se avrei potuto sciogliere allora questi miei dubbi. Però non era la motivazione quello che mi mancava e tale mi diceva di mettere tutto me stesso in quella sfida, per vincere, ma non solo per arrivare in prima posizione. Quella Yamaha non segnava delle limpide ellissi nelle curve, le dipingeva di forza come con un pennello, ed io ero forse attratto da tanta sublime maestria e da tanta eterea padronanza. “Come ho potuto dimenticare il suo nome…”. Nome che fece breccia improvvisa nella mia consapevolezza: “Rei…”.
No, mai e poi mai avrei permesso che Kashino vincesse con il pubblico, nel cuore di ogni singolo spettatore.
Di nuovo, alla prima variante dopo il rettifilo, ci videro appaiati, uno dietro l’altro. Tuttavia, stavolta, in due aggredimmo i freni all’altezza degli ultimi centimetri prima della curva, in due sfrizionammo strappando tre marce in rapidissima sequenza ed in due scendemmo in piega con la traiettoria della ruota anteriore che nulla aveva a che fare con la posteriore.
In fondo non dovevo concentrarmi più di tanto in quelle manovre, anzi, era un sentirmi ancora più a mio agio con quello stile crossistico, invece che tentare rigorose e precise traiettorie curvilinee.
Per la verità non sono mai stato bravo in geometria, senza contare, poi, che è più emozionante pensare di essere più veloci, non essere più veloci sul serio: se freni con il dovuto anticipo e pieghi dolcemente le emozioni rallentano e, anche se effettivamente risparmi qualche decimo, ti senti molto più attardato di quando freni violentemente, pieghi e riapri con aggressività, nel giro di pochi indefinibili istanti.
Certo, fino a quando quegl’indefinibili istanti non si assommano, fino a quando quei centesimi non diventano decimi, fino a quando quei decimi non diventano secondi. Ed i secondi non sono una cosa che si può trascurare in una corsa…
“Cosa fare? Arrivare prima o mostrare cocciutamente al pubblico che Kashino non è l’unico in grado di padroneggiare certe magie?” Non dissi queste parole, forse non formulai questo pensiero nemmeno per intero, in fondo dovevo fare la mia scelta in un lampo, però il risultato fu il medesimo.
Lo ricordo chiaramente, rivolsi diverse imprecazioni al mio cerchio posteriore, un comune 17 pollici quando un 16,5 mi avrebbe permesso di toccare il cielo con un dito. E feci altrettanto con la gomma dello stesso cerchio, una costosissima mescola morbida che già iniziava a dare segni di cedimento, però dovetti rassegnarmi: io non potevo rimanere indietro!
“No Rei, la nostra sfida non può concludersi qui, al diavolo la GP1 e la GP2, ho aspettato fin troppo a lungo qualcuno dall’ostinazione così ferrea come la tua. Dovessi fare a pezzi me stesso e la moto, giuro che tenterò di strapparti il primo posto fino all’ultima curva se sarà necessario!”.
Già, “fino all’ultima curva” pensai, mentre l’YZR si faceva sempre più piccola davanti a me.
Fino all’ultima curva giocammo a rincorrerci come due bambini dispettosi che tentano di acchiapparsi e di rubarsi un bel giocattolo l’uno dalle mani dell’altro.
E fino all’ultima curva il campione della GP2 non ebbe un nome, tuttavia è inutile che in questo momento cerchi di ricreare falsa suspance nei confronti di chi, forse, ha seguito quell’avvenimento in diretta.
Fui io ad arrivare per primo al traguardo.
C’è bisogno di dire che i nostri ruoli si invertirono quando decisi di sacrificare un po’ della mia testardaggine e di guidare in quel modo forse non degno delle tre lettere che portavo sulle spalle, ma che mi permise di cancellare il distacco che la YZR mi aveva inferto?
No, è semplice immaginare come andarono le cose: la YZR concluse così il suo Gran Premio, di traverso fino all’ultima curva, mentre l’NSR riprese quel dolce incedere che le permetteva di sfruttare al meglio la sua meccanica perfetta. Telaio, gomme, freni e soprattutto motore della NSR mi riportarono dietro alla freccia rossa e bianca e poi subito davanti ad essa, proprio all’ultima curva. Alla curva che chiuse il Gran Premio.
Quando la bandiera a scacchi sventolò per me il mondo si fece improvvisamente silenzioso ed ebbi un attimo di esitazione: avevo finito di correre, l’avventura si era conclusa ed era conclusa anche quell’inattesa circostanza che avevo trasformato a tutti gli effetti in una sfida personale.
Avevo partecipato per me stesso, per divertirmi, come se di vincere in realtà non mi fosse mai importato, eppure il mio comportamento si fece contraddittorio nel battito di un ciglio. Nel mio animo scomparve improvvisamente qualunque forma di razionalità ed il mio senno divenne in grado di ripetere ossessivamente soltanto poche parole: “Ho vinto! Ho vinto! Ho vinto! Sono primo nella GP2! Sono primo nella GP2! Sono primo nella GP2!”.
E non riuscivo a trattenere le risa ed a contenere l’entusiasmo che avevo dentro. Ed ancora:
“Si, si, SI! Sono il numero uno al mondo, non c’è nessuno della mia età in grado di battermi! Ho impresso per sempre il mio nome nella storia del motociclismo agonistico!”.
Con queste frasi serpeggianti all’interno del casco rientrai nella pit-lane e mi diressi verso il garage del mio team, ma l’ambiente familiare dal quale avevo preso il via era del tutto scomparso. Il locale si era ora trasformato in un vero e proprio Pandemonio, saturo di grida, confusione ed entusiasmo. Quando scesi dalla moto, fui letteralmente investito da una fiumana di individui, da una folla che si dimenava convulsamente, da uno sterminato gruppo di persone impazzite di getto. A decine mi si fecero incontro, ognuno dicendo una cosa diversa ed ognuno sfiorandomi più e più volte per porgermi delle congratulazioni. Chi si trovava nella parte interna della recinzione si limitò a stringermi la mano o ad abbracciarmi senza che io avessi neanche riconosciuto chi mi dedicava quel gesto di affetto, ma altre decine di mani spuntavano dal di là delle inferriate, mani sporte nella speranza di potermi toccare nel momento in cui mi fossi avvicinato ad esse.
Mi sentii terribilmente a disagio in quel frastuono ed avrei voluto gridare: “Silenzio, volete smetterla? State zitti, perché a me in realtà non importa veramente nulla…”.
Ma la mia natura rimane quella di colui che tiene testa ai cavalli selvaggi, non agli animi impazziti. Dalla mia bocca uscirono parole disarticolate:
– No, ascoltatemi… ascoltatemi, io… non sono il campione… cioè, in realtà sono stato sconfitto… proclamate vincitore Kashino… il titolo va a lui, io non lo voglio…
Quale ipocrisia. Non era vero niente, ero contento di aver vinto nella GP2 e volevo tutto per me il plauso del pubblico. Ma solo quello: un messaggio, non una forma. Eppure il mondo che allora mi vorticava attorno non aveva niente del calore umano, non era una voce suadente in grado di sussurarti dolcemente: “Sei stato bravo ragazzo, ti sono dovuti dei complimenti. Hai avuto il tuo dolce successo ed ora possiedi la forza per mettere a tacere il tuo più grande nemico: te stesso”. Più li spostavo convulsi senza meta, più ai miei occhi si presentava solo arroganza ed esasperazione. E non era importante che fossi stato io a vincere, chiunque al mio posto, qualunque fosse stato il suo nome, avrebbe goduto della stessa celebrazione.
Continuare a correre in pista –ed in quegli ambienti- non rientrava nei miei desideri, quindi ero ben contento di cedere quest’occasione a Rei e la mia frase, per quanto disarticolata, fece comprendere perfettamente ai presenti quali erano le mie intenzioni.
Dal frastuono la situazione tramutò al silenzio più completo e nuovamente ad un sibilante ronzio.
Intorno a me si levò un inteso mormorare: in alcun modo si mai è visto un primo posto che decide di non accettare il ruolo di vincitore, in nessuna classe, in nessuna categoria, in nessuna sessione. Mai. Ma la mia decisione era presa: a quel punto non feci altro che dirigermi verso Rei e l’emozione di incontrarlo, stavolta di persona, e di rivolgergli la parola da buon amico fu ancora una volta indescrivibile.
Ero eccitato nientemeno che come uno scolaretto:
– Oh… ciao…
Quale cambiamento, intimidito e sognante, quando poco prima, su due ruote, il mio comportamento non avrebbe potuto descriversi in altro modo che invasato.
Mi guardò per un istante, con un’espressione quasi truce, ma non disse niente e si voltò incamminandosi verso la palazzina del podio. Tuttavia non provai rancore o idulgenza per questo suo comportamento: il modo non aveva più importanza, era sufficiente il raggiungimento dell’obiettivo. Agii e basta: lo afferrai per un braccio e lo feci voltare verso di me, gli diedi il mio casco e le mie parole furono…
– Prendi questo… ti cedo anche il titolo e la carriera di pilota, però ascoltami, vorrei parlare con Kira e dirle alcune cose.
Stavolta si mostrò vivamente meravigliato, colpito certamente dal mio comportamento, ma più che altro da quello che gli avevo inaspettatamente chiesto.
RINGRAZIAMENTI
(Nota bene: i ringraziamenti sono sempre sfuggiti all’opera di aggiornamento, quindi del tutto originali rispetto alla stesura del 2002).
Contrariamente a tutte le volte precedenti, ho un sacco di persone a cui rivolgere i miei ringraziamenti per la stesura di quest’ultimo racconto.
Elena, ringrazio in primis la mia amica Elena! Se avete potuto leggere questo documento, ed ancor più se vi è piaciuto, lo dovete solo a lei, che mi ha dato l’idea di una specie di fanfiction su Mars. Naturalmente non posso fare a meno di ringraziarla anche per la pazienza che dimostra con il sottoscritto, così tanta che si meriterebbe le erigessero un mausoleo. Se ti fossi chiesta se alcuni riferimenti, tipo la “Mano di Dio” ecc. ecc. siano presi di sana pianta da Berserk, ti confesso di no. Garantisco, parola d’onore, di non aver violato nessun tipo di copyright, infatti avevo pensato a tutte quelle cose molto prima di leggere le avventure di Gatsu (e non è successo ieri! Caspito, solo ora sto realizzando quanto lunga sia stata la stesura di questo racconto!).
Ringrazio Fuyumi Souryo che ha scritto e disegnato “Mars”, quel bel manghetto senza cui questa storia non avrebbe avuto ragione d’esistere e senza la quale non avrebbero nemmeno avuto forma personaggi come Rei Kashino e Kira Aso.
Ringrazio il mio amico Lorenzo, forse l’unico che condivide al 100 per cento la mia passione per le moto sportive, l’unico che può dire di aver sfiorato a pieno le emozioni descritte nel racconto, e l’unico nel quale brucia la fiamma delle competizioni quanto lo percepisco in me. Lui mi è stato di grande aiuto per chiarirmi le idee su molti punti del regolamento sportivo e mi ha anche portato a fare un giro con quella specie di bestia selvaggia che è la sua nuova RG – 500 (una quattro cilindri due tempi di 500 cc che somiglia molto alle vere moto da Gran Premio), facendomi provare sul serio quell’emozione di spinta che nel racconto è definita come “La mano di Dio”. A proposito Lore, so per certo che avrai pensato a questo particolare: mi riferisco al gesto di porgere il gomito a Kashino. Questa volta ammetto il palese ed evidente riferimento al gesto che Max fece a Vale in non mi ricordo quale Gran Premio. Mentre non avrai avuto dubbi sullo stile di guida ripreso dal nostro Gary McCoy, che tuttavia sul manghetto di Mars è veramente condiviso da Kashino.
Ringrazio i miei genitori, che mi hanno permesso di divertirmi tanto da piccolo perchè mai sono stati eccessivamente apprensivi nei miei confronti, e li ringrazio anche per aver sopportato ed assecondato il mio desiderio di andare in moto comprandomi i 30 cavallini della mia passata 125 (naturalmente non leggeranno mai questo racconto, se lo facessero potrebbero anche decidere di mandarmi a piedi per tutta la vita…^^’ ). Spero, inoltre, di essere presto in grado di permettermi qualcosa di più impegnativo, devo solamente pensarci bene perché, se mi comprassi davvero una supersport, rischierei sicuramente di fare la fine dei 99 proprietari di Uno Turbo che cito sempre…
Ringrazio Hideaki Anno e tutto il Gainax. E’ solo grazie a “Neon Genesis Evangelion” che ho capito a quali risultati, artisticamente parlando, avrei voluto puntare e da quali modelli avrei voluto apprendere.
E non è finita: ringrazio tutti voi, amici o semplici conoscenti, che in questi ultimi anni mi avete lasciato qualcosa che mi ha permesso di fare tanta strada. In tutti i sensi.
E’ sempre una cosa meravigliosa quando esperienze sogni e fantasia si fondono per creare racconti che, seppur non veritieri, riescono a trasmettere un briciolo di ciò che proviamo.Scrivere non è sempre solo imprimere suoni della voce su carta o su video ma anche un modo per sigillare da qualche parte una porzione di noi stessi. Ottimo Lavoro Ali, l’ho letto con molto gusto e spero di poterne avere altri di simili sotto gli occhi.