TECNICHE DI AVVINCIMENTO (ED AFFINI)

Da ragazzino ero un f*****o genio!

<< SAGGIO SU COME DIVENTARE SCENEGGIATORI PROVETTI IN 8 TECNICHE – VERSIONE 3.2 >>

Ho scelto un titolo a dir vero abbastanza originale per questo documento, ma sono sicuro che i lettori lo troveranno sufficientemente appropriato dopo che avrò spiegato loro cosa intendo con i termini “tecniche di avvincimento”. Comunico inoltre ai miei lettori che potrebbe sembrar loro di aver già letto qualcosa di simile a queste pagine quando le scorreranno con gli occhi, per il semplice fatto che in questa sede verranno trattati molti punti già apparsi nel documento “Piano Tattico Evangelion”. La spiegazione di ciò è da ricercarsi principalmente nel fatto che lo stesso Evangelion fa largo uso di queste “tecniche” (quest’ultima una delle cause principali per cui tale opera è, secondo me, meritevole del titolo di “capolavoro”).
Dunque, cosa sono queste fantomatiche “tecniche di avvincimento”?
Sono degli espedienti, delle trovate, dei meccanismi o, per meglio dire, delle tecniche appunto, di cui fanno uso quegli artisti che devono realizzare film, fumetti, storie, libri ecc. La loro utilità, come suggerisce il nome stesso, è quella di rendere il più avvincente possibile la forma di quello stesso film, libro o fumetto.“Avvincente”: proprio questa la parola chiave dell’intero saggio.
Una considerevole componente degli spettatori di oggi, che siano essi di un film, di un libro, di un fumetto o quant’altro, preferisce vivere una qualunque trama in prima persona, personalizzarla e sentirsene parte integrante, piuttosto che osservare distaccatamente lo svolgersi degli eventi. Perché? Una domanda più che lecita, ma alla quale non si può dare una risposta, o meglio, una domanda alla quale non si può dare una risposta definitiva, oppure, ancora, una domanda alla quale si possono fornire migliaia di risposte, nessuna delle quali veramente esaustiva. Gli spettatori di oggi preferiscono interagire con il loro film, il loro fumetto, il loro libro, forse perché la selettività della società odierna ha insegnato loro a comportarsi così con qualunque cosa li circondi e dunque anche con i loro oggetti di svago. O forse perché il pubblico si diverte così e basta, e non è possibile ricercare una sola ragione logica ed onnivalente. E’ comunque un dato di fatto che siano state elaborate un certo numero di tecniche che rendono questo tipo di immedesimazione dello spettatore più immediata, efficace e coinvolgente, tecniche che fanno leva su questo senso di stretta interazione (di cui molto spesso si sentirà parlare in questo documento) e che, se ben utilizzate dal regista, aumentano a dismisura l’interesse e l’indice di gradimento di spettatori e critica. In parole povere, il fine delle tecniche di avvincimento sembra ridursi a stratagemmi per migliorare una creazione. Sfortunatamente però, essere a conoscenza delle formulazioni di queste tecniche non significa essere padroni delle tecniche stesse. Queste ultime, inoltre, sono da intendersi come delle mere indicazioni e non come delle leggi assolute in grado di assicurare il successo preventivo ad un prodotto. A questo punto potrebbe tuttavia sorgere il seguente dubbio: “se le tecniche di avvincimento possono dunque fallire nel loro intento primario, allora può comunque valere la pena cercare di riunirle in un unico documento e spiegarne minuziosamente il funzionamento, nonché il loro modo di esprimersi all’interno di un libro, di un film o di un fumetto?” La risposta è comunque affermativa, per la semplice ragione che le tecniche di avvincimento hanno in realta duplice scopo: possono essere molto utili non solo ad un creativo al lavoro su un nuovo progetto, ma costituiscono anche un ottimo metro di giudizio per il comune spettatore. Ogni singolo, comune, spettatore può infatti essere considerato come una sorta di giudice e critico, poiché egli stesso si rende il soggetto migliore in grado di osservare e misurare sulla propria persona se e quanto l’utilizzo di tecniche di avvincimento abbia avuto un esito positivo, oppure, al contrario, abbia stravolto del tutto una trama già valida. Non dimentichiamo infatti che l’avvincimento ed il divertimento derivanti dalla visione di un film o dalla lettura di un libro o di un fumetto rimangono elementi strettamente soggettivi e pertanto altamente variabili tra persona e persona. Questo documento si propone, pertanto, non solo di parlare di tecniche avvincimento, ma anche di fornire uno strumento il più oggettivo possibile utile a misurare il lavoro di backstage svoltosi durante l’assemblamento dell’opera e, di conseguenza, la qualità nella veste definitiva dell’opera che si suppone (e si spera e si augura) di ritrovare proporzionata a quello stesso lavoro di backstage.
Prima di proseguire è bene fare un importante distinguo tra “trama” e “sceneggiatura”, chiarire il significato di questi due termini (o almeno il significato che io attribuirò loro in questo documento) e specificare bene la natura del rapporto che intercorre tra l’uno e l’altro. La “trama” in primis: una trama è un’idea, è una sequenza ordinata di eventi che nasce nella testa di un individuo, è ciò che, in termini del cinema, porta in un certo qual modo il nome di “soggetto”. Una “sceneggiatura” è qualcos’altro: è una rappresentazione della trama e del soggetto, che sia essa su carta, nel caso di un libro o di un fumetto, oppure su pellicola, nel caso di un film. Sottolineamo l’importante distinzione tra un’entità e l’altra perché, nonostante esse conservino sempre un legame molto stretto, emergere molto una notevole frattura tra le due.
La frattura temporale in primo luogo. Una trama rappresenta un prodotto agli inizi che deve ancora subire una serie di modifiche per essere presentato al pubblico. In una trama le varie componenti possiedono una sequenza logica ed un rigoroso ordine temporale, sequenza ed ordine che la mente del regista ha attribuito agli eventi in fase di creazione. La sceneggiatura, invece, è già un passo evolutivo avanti perché in essa la trama inizia gradualmente ad assumere la forma con la quale verrà presentata al pubblico. Pertanto gli eventi non sono necessariamente ordinati in ordine cronologico, (altrimenti si violerebbe un’importante tecnica di avvincimento, ma di questo si parlerà meglio più tardi) bensì momenti del passato e momenti del presente possono intrecciarsi come in un complesso puzzle.
Un’altra importante precisazione. E’ già emerso che una trama possa avere diversi sviluppi, che possa costituire, cioè, l’ossatura di un libro, il soggetto di un film oppure l’idea per un fumetto. In questi ultimi è solo la rappresentazione che cambia (dunque la sceneggiatura), ma la trama resta in tutti i casi una parentesi prologo/epilogo in cui viene narrato un certo numero di eventi. Questa affermazione per sottolineare che, quando in queste pagine utilizzerò il termine “trama”, lo farò senza pensare agli ipotetici sviluppi della stessa, che si tratti di libro, film, fumetto ecc. Discorso analogo per colui dal quale è partita l’idea della trama e che ha proceduto alla prima stesura. Egli può chiamarsi “regista” o “direttore esecutivo”, può chiamarsi “scrittore” o può chiamarsi “mangaka”, ma si tratta pur sempre di una persona che nei tre casi svolge lo stesso ruolo. Dunque mi riferirò a quest’individuo chiamandolo “regista” poiché il mondo il mondo del cinema è quello che fa maggiore attenzione all’uso delle tecniche di avvincimento. Infine, colui il quale assisterà all’opera finita, al lettore di fumetti, di libri o allo spettatore di film. “Spettatore” è il termine che utilizzerò per riferirmi a lui.
Iniziamo, finalmente, a parlare di tecniche di avvincimento vere e proprie.
“Tecnica di avvincimento numero uno: non ci sono regole”. Le regole sono precisi e rigorosi schemi mentali, qualcosa che ci suggerisce la convinzione di ottenere per certo un dato risultato. Le tecniche di avvincimento hanno come scopo quello di rendere più avvincente una trama e conferire al film, al libro, al fumetto che ne fanno uso un certo spessore, ma, come già detto, esse non sono in grado di garantire alcun tipo di esito positivo ad un lavoro artistico, quindi è del tutto inutile considerarle come delle ferree linee di comportamento cui attenersi rigorosamente. Le regole, inoltre, sono uno schema che non si modifica con il numero crescente di volte in cui se ne fa uso. Ma il cinema e la lettura sono due mondi dinamici, proprio perché è dinamico il mondo al quale il cinema e la letteratura sono rivolti: quello del pubblico, della società. Le tecniche di avvincimento che elencherò di seguito potrebbero quindi avere un valore oggi, ma domani potrebbero aver bisogno di un certo tipo di modifiche, oppure potrebbero essere del tutto superate, e quindi da riscriversi partendo da zero. Utilizzare sempre le stesse tecniche di avvincimento senza porre volta volta i necessari aggiornamenti significherebbe “abituare” il pubblico, significherebbe assuefarlo e, volta volta, far sfumare sempre di più il suo avvincimento invece che generarne di nuovo. La ripetizione e l’elemento abitudinario sono i peggiori nemici del concetto stesso di avvincimento perchè invece di generare aspettative le annullano. E’ necessario pertanto cambiare gli schemi, sovvertirli e riprogettarne di nuovi sempre più efficaci, facendo uso il più possibile delle esperienze passate. Particolare da non sottovalutarsi è, ovviamente, che queste novità e cambiamenti anticipino i comportamenti, le idee e le consuetudini del pubblico e non che si adeguino ad essi! “L’effetto novità” ed “il fattore originalità” sono due elementi quantomeno determinanti per la buona riuscita di una trama e di una sceneggiatura. E’ molto importante tenere a mente questa prima regola di cui comunque verrà data una migliore dimostrazione più tardi e della quale approfondiremo molti punti solo successivamente.
Facciamo adesso un deciso passo avanti e riportiamo l’esempio di una trama del tipo più semplice e meno articolato possibile:
“Mi sono svegliato, ho fatto questo, questo, quest’altro, sono andato a letto”.
In pratica una storia con un inizio, uno svolgimento strutturato a banale elenco della spesa, una conclusione. Qui di avvincimento non vi è traccia, quindi se l’obiettivo fosse stato di proporre qualcosa di veramente coinvolgente avreste commesso almeno tre gravi errori che adesso andremo ad osservare da vicino.
– Un primo errore: l’azione della trama è banale, è troppo banale. Non è nell’interesse del pubblico sapere che stamani l’individuo si è alzato e non è nei suoi interessi vedere il suo comportamento durante una giornata come tante altre.
– Errore numero due: nell’esempio ci si cura di descrivere dei fatti già definiti come “banali” in modo tendenzialmente minuzioso e particolareggiato. Da tenere presente è che anche il pubblico ha una fantasia e delle aspettative e non ha interesse ad osservare scene che può immaginare da solo, soprattutto se queste non assumono un significato alla luce della stessa trama. Si noti anche come questo discorso si leghi al precedente.
– Errore numero tre: i fatti dell’elenco seguono rigorosamente un ordine cronologico di rappresentazione. Le trame di questo tipo sono dette “fabulae” perché hanno una struttura semplice, ideale per la costruzione di storie per bambini (non a caso dette “favole”) i quali farebbero solo fatica a seguire svolgimenti più complessi. Per coinvolgere anche i grandi però è forse meglio fare uso delle trame di tipo ad “intreccio”, quelle cioè in cui emerge la frattura temporale di trama e sceneggiatura cui si è già accennato in precedenza.
Rimediamo adesso al primo dei tre errori: qual è il modo più ovvio per rendere avvincente un elenco della spesa?
Primo fra tutti è quello di inserire nella lista della spesa dei prodotti di uso affatto comune, ricercati, oppure che una persona non si immaginerebbe mai di dover comprare al supermercato. Una lista della spesa che elenca tra le cose da comprare “Astronave stellare, dinosauro Tirannosauro, gas esilarante” è molto più avvincente della solita lista “carciofi, mandarini, detersivo, pane, latte”. Non parlo dal punto di vista dell’utilità, ma dal punto di vista del puro avvincimento. “Tecnica di avvincimento numero due, detta della fantasia”: il soggetto della trama, per essere avvincente, deve essere dunque il più originale ed alternativo possibile, diverso da qualunque altro mai visto prima, almeno per quanto la vostra fantasia e le restanti componenti della vostra opera lo permettano. Ma anche le ambientazioni, le problematiche, le situazioni dovrebbero discostarsi dal consueto, da quello che circonda lo stereotipo del vostro spettatore. Ma questo non significa andare a caso e dare origine ad una confusa mescolanza di idee, ogni scelta alternativa del regista dovrebbe avere un suo perché, spiegato e credibile. Solo la sfera umana (quella cioè relativa al comportamento dei vostri personaggi) per quanto originale, dovrebbe mantenere dei confini di naturalezza, dovreste essere in grado, cioè, di trasmettere allo spettatore la sensazione che quello stesso personaggio, se fosse esistito veramente, si sarebbe comportato esattamente a quel modo nella situazione che voi avete descritto. Tutto questo, per quale ragione? Perché una trama dai risvolti forzati e non naturali sottrae avvincimento invece che fornirne, esattamente come accade per una trama dal soggetto banale e scontato. Mi si permetta, a questo punto, di riportare alla mente un concetto di Ariosto tuttora validissimo: la trama verisimile rappresenta il miglior compromesso tra quella realistica, priva di qualsiasi influenza fantastica (dopo un po’ di tempo noiosa per l’osservatore, il quale sente la situazione come troppo vicina alla sua vita), e quella completamente irreale, innaturale, inventata e meccanicamente simulata al 100% (che diventa parimenti noiosa perché l’osservatore non riesce ad immedesimarsi, a confrontarsi e ad appassionarsi). C’è comunque un’eccezione a questa seconda tecnica che permette di raggiungere un risultato ancora più sorprendente ed appagante. Questa nuova tecnica prevede che si bandisca qualsiasi segno di originalità nelle premesse della trama, in quella parte in cui lo spettatore crea le sue aspettative, ma che siano poi gli sviluppi ad assumere un tono del tutto originale ed inaspettato. Vi porto un esempio per capire meglio e, quello migliore che mi viene in mente in questo momento, è quella scena de “L’Esorcista” in cui la protagonista scende le scale busto all’insù. Sono sicuro che anche voi, se avete visto il film, avete ben presente questa scena e che la ricordate, magari con dovizia di particolari, proprio perché vi ha colpito, segno tangibile di quanto voi stessi abbiate trovato questo particolare della trama veramente avvincente. Le premesse in questa scena sono costituite dall’azione “scendere le scale”. Noi tutti scendiamo le scale decine di volte al giorno ed intorno a noi vediamo continuamente persone che, a loro volta, scendono le scale. In sé, il particolare non ha niente di avvincente, proprio il contrario direi, è un fatto di una banalità che lascia sgomenti. Ma la protagonista dell’Esorcista non scende le scale in modo comune, le scende al contrario, ovvero fa una cosa normale in un modo anormale, una cosa comunissima in un modo mai visto prima. Ed il risultato è sorprendente, anche migliore dello schema “Premesse originali – Svolgimento originale”. Chiameremo questa tecnica di avvincimento “Effetto Esorcista” in onore del film di William Friedkin. In linea di massima, nell’effetto Esorcista, più è sentito il contrasto tra la banalità delle premesse con l’originalità dello svolgimento, più è avvincente la vostra trovata. Terribilmente falso il contrario: se le premesse sono originali e lo svolgimento si riduce a qualche banalità di uso comune, allora la trama perde di spessore e di interesse. Sono tante le storie che assumono toni solenni e pomposi nella fase delle aspettative e che poi ricadono, magari proprio nel finale, per ragioni diverse.
Scendiamo adesso nel particolare. Abbiamo già impostato l’equazione: “soggetto originale o inaspettato = trama avvincente”. Ma questo rappresenta l’eventualità più semplice, anche una storia dal soggetto poco originale può raggiungere un certo grado di avvincimento, anche se in questo caso sono necessari maggiori sforzi da parte di chi scrive. Ebbene, anche la trama “Mi sono svegliato, ho fatto questo ecc., sono andato a letto” può essere in grado di catalizzare l’attenzione dello spettatore, pur con delle nuove tecniche di avvincimento che permettono di rimediare al secondo, grave, errore di questo nostro elenco della spesa. Una delle possibilità è proprio il già descritto effetto Esorcista, ma si pensi anche all’opportunità di non rivelare immediatamente ogni minimo particolare dello vicenda. Si decida, invece, di tenere nascosto qualche elemento qua e là. Riprendiamo l’esempio della lista della spesa e proviamo ad adattarlo a quest’ultimo espediente: “carciofi di quel tipo, mandarini particolari, detersivo *A*H, pane, latte”. Il malcapitato che andrà a fare la spesa e che si troverà un lista del genere non potrà fare a meno di chiedersi:
– “Carciofi di quel tipo quale? Mandarini particolari come? Che marca di detersivo è *A*H?”
C’è un’evidente interazione tra chi fa la spesa e la lista stessa (non è altri che il senso di compatibilità cui facevo riferimento in apertura), esattamente come c’è un’interazione tra lo spettatore di una trama e la trama stessa e, poiché è nell’interesse di chi fa la spesa rispondere a quelle domande, parimenti è nell’interesse dello spettatore trovare una risposta ai dubbi che la trama gli pone all’interno di sé stessa. Quindi il gioco è fatto: stimolate la curiosità dello spettatore suggerendogli voi stessi delle domande che pensate non potrà fare a meno di porsi ed in lui l’avvincimento scorrerà a fiumi.
Riassumiamo questa nuova tecnica di avvincimento (detta della domanda – risposta): tralasciare risposte immediate a particolari su cui lo spettatore non potrà fare a meno di interrogarsi. Applicare questa tecnica, ovviamente, è tanto più facile tanto più la trama tratta di argomenti originali: se dico di essere andato a scuola stamani e mi presento come Ali, difficilmente qualcuno si chiederà come lo abbia fatto, tutti daranno per scontato che mi sia mosso in macchina. Tuttavia se mi presentassi come Luke Skywalker, qualcuno, magari il vero appassionato di Guerre Stellari, potrebbe anche chiedersi: “Sarà andato a scuola in X-Wing oppure tramite Land Speeder?”. Questa necessità di inserire particolari oscuri in una trama è una condizione necessaria per molte tecniche di avvincimento. Perché? Perché l’avvincimento dello spettatore proviene per una buona percentuale dalla sua curiosità e gli stimoli migliori a questa curiosità non sono altro che i punti oscuri e non spiegati della vostra trama.
Diamo ora per scontato che, trovando molto efficace questa tecnica, voi vogliate inserire domande e risposte in una vostra trama per farne uso. In che rapporto dovrebbero trovarsi domande e risposte le une con le altre?
Ci sono due possibilità.
– Una è quella di separare la trama in due parti: nella prima parte verranno forniti una certa quantità di interrogativi, nella seconda verranno fornite tutte le risposte agli interrogativi stessi.
– Un’ altra strada è quella di incrociare continuamente domande e risposte, fornire gli uni con le altre, con ordine, oppure alla rinfusa.
Non c’è una strada assolutamente migliore delle altre, è evidente che l’intreccio di domande e risposte è molto più avvincente della linearità, ma è anche vero che gestire una trama del genere richiede molta più abilità. (Ed è forse meglio accantonare un po’ di ambizioni piuttosto che rischiare di rovinare un progetto che vanta delle grandi premesse.)
Forniamo adesso alcuni esempi di queste due tecniche.
Tsukasa Hojo preferisce optare per la prima delle due possibilità sia in City Hunter che in Occhi di Gatto. Shin Kaibara fa la sua comparsa nei primi numeri della serie, quindi svanisce misteriosamente nel nulla e ricompare negli ultimi volumetti con il duplice scopo di chiarire il passato di Ryo e di portare a termine la storia di City Hunter. Nella mente del lettore si formano tanti punti interrogativi su chi possa essere questo potente malavitoso dal volto sempre in ombra, i puntini interrogativi tormentano per un po’ il lettore e poi, per mancanza di informazioni, si assopiscono a tempo indeterminato, fino alla conclusione della serie, momento in cui si dissipano con la rivelazione che Kaibara è una specie di padre per Ryo ecc. ecc.
Hideaki Anno, per il suo Evangelion, usa una tecnica diversa. Pone continuamente quesiti e pone continuamente risposte (oppure dei piccoli indizi), indipendentemente dal fatto che gli uni siano legati con le altre. Sta allo spettatore mettere insieme il puzzle.
Clamp nel suo RG-Veda utilizza una tecnica ancora diversa, una via di mezzo tra quella di Hojo e di Anno. Una lenta e progressiva sequela di interrogativi durante l’intera trama ed una scarica di risposte tutte insieme nella conclusione del manghetto stesso.
(Secondo me, il valore di un mangaka, come di un regista o di uno scrittore, si misura ed emerge in maniera considerevole proprio grazie a questo, nel riuscire ad adottare con più efficacia tecniche di avvincimento sempre più complesse. Per questo reputo Anno più capace di Hojo.)
Ma veniamo adesso ad ulteriori specifiche sulla “tecnica della domanda – risposta”. Dicevo prima che se mi fossi presentato come Luke Skywalker qualcuno si sarebbe posto il dubbio di come avrei fatto per andare a scuola. Interrogativo riassumibile in una domanda:
– COME?
Ma gli interrogativi che più rendono una trama avvincente sono altri, anche il “come”, ma altri in primo luogo:
– COSA E’ … ?
– COSA E’ SUCCESSO … ?
Dunque il “cosa”. “(Sotto)Tecnica di avvincimento del che caspito…?”: porre interrogativi specificamente sulla natura di un oggetto o di un evento. (Del “che caspito” perché guardando Evangelion mi chiedo sempre: “Ma che caspito è questo o quello in verità?” ^^) Inutile dilungarci sulla domanda “COSA E’ … ?” Più la trama è originale più è semplice inserire in essa oggetti di cui non si conosce la natura, natura sulla quale lo spettatore non potrà fare a meno di interrogarsi.
Discorso diverso, invece, per il COSA E’ SUCCESSO…? “(Sotto)Tecnica di avvincimento fondamentale del tempo al tempo”: nascondere, nello specifico, alcuni fatti, ma non il legame che intercorre tra questi eventi misteriosi e gli eventi che possono essere descritti liberamente. Ricordate l’esempio del “mi sono svegliato, ho fatto questo, questo e quest’altro, sono andato a letto”? La tecnica del tempo al tempo permette di correggere il terzo errore che è stato messo in evidenza circa questa lista della spesa. Una volta anticipato che questa è forse una delle tecniche di avvincimento più utili e funzionali, forse anche più di quelle che correggono gli altri due errori, è di primaria importanza stabilire come sia possibile farne uso durante la stesura di una trama. Condizione necessaria affinché sia possibile utilizzare il “tempo al tempo” è la presenza, nella trama chiaramente, di almeno due importanti sequenze di avvenimenti: una, la prima, il cui scopo è incuriosire ed avvincere (sequenza che verrà nascosta) ed una, la seconda, sulla quale si manifestano le dirette ripercussioni della prima. Per questa ragione è assolutamente necessaria nella stesura della trama, non solo una consequenzialità logica, ma anche una consequenzialità temporale degli eventi, per l’appunto la consequenzialità temporale che distingue la trama dalla sceneggiatura ed alla quale ho fatto più volte riferimento. Avendo sotto gli occhi la successione ordinata dei fatti descritti nella trama, il regista può così scegliere a tavolino quali saranno gli avvenimenti che egli terrà nascosti e quali egli descriverà apertamente per stimolare la curiosità dei suoi spettatori. E, contemporaneamente, sarà per lui possibile fissare il momento in cui si aprirà la storia prevista nella sceneggiatura, stabilendo così un riferimento utile al lettore per comprendere cosa è passato e cosa è presente.
Facciamo un esempio. Evangelion è pieno zeppo di esempi di questo genere, ma quello più eclatante è il Second Impact. Cosa è successo durante il Second Impact? Anno, ovviamente, non ha la minima intenzione di rivelarlo, però lo usa di continuo come “strumento avvincente”, infatti nella serie non si fa altro che parlare proprio di questo fenomeno come la causa di tutto e come l’evento che ha sconvolto l’esistenza della razza umana. Dunque gli eventi passati hanno ripercussioni sul presente ma, tacendo questi eventi passati, è logico che lo spettatore non faccia altro che cercare nella trama il seppur minimo indizio per scoprire cosa sia avvenuto (leggi: “cosa è successo?”) nel giorno del Second Impact. La sceneggiatura, però, non si apre con il Second Impact stesso, essa prende corpo 15 anni dopo con l’arrivo di Shinji a Neo Tokyo 3. Il presente è riconducibile a questo momento ed il continuo susseguirsi di avvenimenti presenti porta a conoscenza di elementi del passato, fino a retrocedere a quindici anni prima.
Pensandoci bene anche l’interrogativo “COSA E’…?” ha un certo legame con l’interrogativo “COSA E’ SUCCESSO…?” Rispondere in maniera esaustiva alla domanda “cosa è” non presuppone solo che si spieghi la natura presente dell’oggetto in questione ma, eventualmente, che si faccia anche un viaggio indietro nel tempo per indagare circa l’origine, il momento della nascita dell’oggetto stesso. Viaggio indietro nel tempo che riporterebbe ad elencare una serie di eventi celati nel passato, elenco di eventi che costituisce esattamente la risposta alla domanda “cosa è successo…?”
Ci sono tre modi, in linea di massima, per effettuare questo viaggio nel tempo e venire a conoscenza degli eventi passati in grado di rispondere all’interrogativo “cosa è successo…?”.
– Il primo, più diretto, più fantasioso e che si spiega letteralmente con le parole “viaggio nel tempo”. I protagonisti possono rivivere fisicamente ed osservare in prima persona il passato tramite un viaggio nel tempo, tramite un sogno, un fantomatico televisore da 46 pollici, oppure un qualcosa, insomma, che ponga direttamente davanti ai loro occhi delle vere e proprie immagini come riprese da un’ipotetica telecamera.
– Il secondo modo, più indiretto: tramite il racconto di una persona, eventualmente testimone degli eventi, oppure semplice individuo a conoscenza di alcune informazioni solo per un caso fortuito. I protagonisti potranno solo udire il passato, ma non vederlo con i loro occhi. Potranno tuttavia interagire con l’interlocutore, in grado di rispondere a domande e di comunicare in prima persona.
– Il terzo modo, del tutto indiretto, caso in cui i protagonisti non potranno interagire con alcuno, proprio perchè non ci sarà alcuno con cui interagire. Essi verranno a conoscenza di come sono avvenuti i fatti solo tramite un manoscritto oppure una pergamena, lo schermo di un computer eccetera, tramite uno strumento, cioè, in grado di fornire un certo numero di informazioni, ma che è in grado di rispondere a dubbi e domande dei protagonisti solo tramite interpretazione degli stessi e tramite il rimaneggiamento delle informazioni già rese note.
Sono dunque i protagonisti della trama che vengono a conoscenza del passato a costituire la chiave di questa tecnica di avvincimento. Ma i protagonisti possono anche venire a conoscenza del futuro. Tuttavia, se l’autore decidesse di rivelare il futuro ai/dei protagonisti in un sol colpo sarebbe inutile continuare a girare il film sperando in un finale imprevedibile. Si tenga in considerazione, insomma, che non è possibile rivelare il futuro come invece si potrebbe fare con il passato, ovvero tramite il bel teleschermo di cui ho fatto cenno nel primo caso. L’esatto contrario semmai. Se è preferibile far conoscere allo spettatore gli eventi del passato quando questi devono essere rivelati con la maggior chiarezza possibile, per il futuro vale l’opposto: meno si rivela meglio è. Proprio perché più si rivela più si toglie l’effetto sorpresa allo spettatore, a meno di sapienti e complicati trucchi. Ma questo non è solo un discorso di quantità di rivelazioni, è anche un discorso di qualità delle rivelazioni. E’ un discorso di interpretazione delle rivelazioni. Fornire una moltitudine di informazioni sul futuro di un personaggio è perfettamente inutile al personaggio stesso se questi non è in grado di capirle e comprenderle. Fornire una moltitudine di informazioni sul futuro di un personaggio è perfettamente inutile allo spettatore se lo spettatore stesso non è in grado di comprendere e capire queste informazioni. Ma quest’ultimo sentirà l’avvincimento su se stesso quando cercherà di trovare un senso a queste parole ambigue o a questo discorso di difficile interpretazione. Ed egli, inoltre, non potrà che apprezzare come, tramite queste rivelazioni, il regista dia prova di maestria nel comporre trame articolate ed avvincenti in cui lo stesso futuro si rimescola col presente ed il passato. “Un senso a queste parole ambigue o a questo discorso di difficile interpretazione”, questa la chiave del prevedere il futuro senza esporlo in modo palese e questo lo stesso enunciato della “tecnica di avvincimento della profezia”, in onore di RG Veda che ne fa uso. “Tecnica della profezia” proprio perché le profezie sono, guarda caso, piene zeppe di discorsi apparentemente senza senso, ma che invece assumono un significato alla luce dei fatti stessi che profetizzano. Questa tecnica permette di anticipare un po’ i tempi, di far capire allo spettatore cosa lo attende ed incuriosirlo, senza tuttavia raccontargli come la trama andrà a concludersi. Ma costituisce anche la base (ed il complemento) per la costruzione di un’altra tecnica di avvincimento di cui parlerò in seguito. Un alternativa alla profezia? Il sogno (ma anche la leggenda profetica), altro strumento in grado di raccontare gli eventi futuri, ma pur sempre sotto una luce ambigua ed ancestrale, in modo che comunque sfuggano alla comprensione di protagonisti e spettatori.
Diciamo adesso che il regista abbia alla fine scelto nella scaletta degli eventi descritti nella trama il punto di inizio della sceneggiatura e, ancora, che sia nei suoi piani utilizzare la “tecnica del tempo al tempo”.
Egli avrà dunque due possibilità: potrà far coincidere l’inizio della sceneggiatura con l’inizio effettivo della trama (e questo significa che si procederà in seguito a nascondere un altro tipo di eventi e poi di nuovo a parlare esplicitamente di altri), oppure potrà aprire lo sceneggiato con eventi posizionati in un qualunque punto della trama (quindi gli eventi trattati all’inizio della sceneggiatura saranno collegati con un passato che nella trama ha già avuto forma, ma che nella sceneggiatura deve per ora rimanere misterioso). Questo secondo caso è proprio il Medias Res, quando cioè trama e stesura definitiva hanno tempi sfasati.
Ma permettetemi di esporre con un semplice grafico quest’ultimo discorso che potrebbe apparire poco chiaro:

→ → → → → SCORRERE DEL TEMPO → → → → →

Inizio della sceneggiatura (narrazione) ….………..…………Eventi misteriosi………..……….…………….….…… Eventi espliciti
coincide con l’inizio degli accadimenti (trama)……………….che vengono taciuti…………..…….…….………….legati a quelli misteriosi

Eventi misteriosi…………………..…..………….… Inizio della sceneggiatura (narrazione)……….….………………. Eventi espliciti
MEDIAS RES…………….………………legati agli eventi pre-narrazione

→ → → → → SCORRERE DEL TEMPO → → → → →

Contrariamente a tutte le altre tecniche di avvincimento, non c’è in quest’ultimo caso un modo di procedere più sopraffino ed uno più semplice, la difficoltà di ideazione e di uso è paritetico per entrambi. Forse perché il meccanismo di fondo è lo stesso e le differenze sono più che altro sfumature.
Quelli forniti fino ad ora sono suggerimenti per l’apertura di una trama, vediamo anche come è possibile concludere un trama. Ci sono quattro possibilità, ma io ne escluderei immediatamente due perché non realmente degne di comparire tra le tecniche di avvincimento. Mi riferisco in primo luogo alla scelta di un autore di non rispondere a molti interrogativi proposti nella storia, ed in secondo luogo a non rispondere direttamente a nessuno di essi (si, ci sono esempi anche di questo secondo caso: Evangelion, almeno nel caso in cui si faccia a meno di considerare i film conclusivi “Death&Rebirth” e “The End Of”). Entrambe queste scelte sono molto infelici, perché non avvincono lo spettatore, lo frustrano e basta. Sussiste infatti un rapporto molto particolare tra la quantità di interrogativi che la trama propone ed il conseguente avvincimento dello spettatore: se i primi, alla fine del film, sono tanti ed ancora privi di soluzione lo spettatore si sente frustrato, al limite del preso in giro, però se gli interrogativi sono tanti, ma il loro equilibrio con le relative spiegazioni è azzeccato, lo spettatore si sente molto coinvolto, avvinto, per utilizzare un termine forse più significativo. Questo processo potrebbe sembrare strano, ma generalmente è proprio così che si svolgono i fatti. E’ possibile sfruttare questo rapporto “spettatore – trama” anche in una fase di chiusura senza necessariamente abusarne, ovvero lasciando in sospeso uno ed un solo interrogativo. Terza possibilità: con un solo interrogativo rimasto aperto il desiderio di rispondere da parte dello spettatore è ancora ben saldo, così tanto che la fantasia del soggetto decolla generalmente a ruota libera, e, allo stesso tempo, il lato razionale dello stesso spettatore non si sente eccessivamente frustrato dall’idea che il regista abbia voluto prendersi gioco di lui: “Tecnica di avvincimento della trama a conclusione semiaperta”. Ultima possibilità è che la parola “fine” coincida anche con il dissiparsi di tutti gli interrogativi ed i misteri che fino a quel punto hanno circondato la storia. “Tecnica di avvincimento”, quest’ultima, “della trama chiusa”. E dove sta, vi chiederete forse, l’avvincimento nel vedersi spiegare finalmente per filo e per segno come si sono svolti gli eventi che fino a quel momento sono stati tenuti nascosti? Forse nell’eccitazione che taluni spettatori provano quando si rendono conto che le risposte che essi avevano immaginato o tentato di fornire coincidono proprio con quelle fornite dalla sceneggiatura. Ma, più probabilmente, nel loro effetto sorpresa. Generalmente, infatti, quando si fa uso di quest’ultima tecnica di avvincimento, si cerca di conciliare l’esigenza di rispondere a tutti gli interrogativi con l’esigenza che queste risposte rappresentino quanto di più inaspettato ci si possa immaginare. Formulando un esempio mi viene incontro, ancora una volta, un mio racconto. Nel mio “Anime di tiratore” si fa uso della tecnica “trama chiusa”, infatti, quando scrissi questo racconto, decisi che nella fase conclusiva avrei chiarito chi fosse il misterioso interlocutore e, allo stesso tempo, avevo anche deciso di inserire un importante finale a sorpresa. In pratica conciliai l’esigenza di chiarire al lettore chi fosse l’interlocutore con la mia stessa esigenza del sorpresone. E lo feci rivelando che l’interlocutore era, inaspettatamente, la figlia del tiratore stesso. La “tecnica di avvincimento della trama chiusa” può quindi essere considerata doppia: comprende la volontà dell’autore di dare tutte le spiegazioni ed anche un’altra tecnica di avvincimento minore, quella già introdotta, detta della “sorpresona”. Quest’ultima tecnica in realtà può benissimo avere vita propria senza che questo comporti difficoltà o complicazioni, non è affatto necessario che la trama prossima alla conclusione sia stata un continuo accavallarsi di misteri e punti oscuri. Riprendendo in mano l’esempio di RG Veda ci si rende conto di come in esso la sorpresona finale rappresenti un complemento all’intreccio dei misteri del resto della trama e che sia strettamente necessaria per mettere la parola fine in modo chiaro ad ognuno di essi. Invece, considerando un altro manghetto di Clamp, Rayearth I, si nota come in quest’ultimo la sorpresona conclusiva sia fine a se stessa e che anzi giunga doppiamente inaspettata, visto che tutto il resto della trama è stato fino a quel momento molto lineare, fabulistico e privo di alcun punto oscuro di sorta. La “tecnica della sorpresona” in sè è costituita da un meccanismo piuttosto semplice, tuttavia ci sono due livelli per rendere più o meno efficace quest’ultima tecnica di avvincimento. Uno è quello di inserire questa bella sorpresa semplicemente in modo che la trama, concludendosi, lasci un ipotetico ed inquietante ricordo nello spettatore (che è anche un po’ il caso del già citato Rayearth), l’altro è il caso in cui la sorpresona non sia solo fine a se stessa, ma che rappresenti anche una specie di chiave di lettura, o di interpretazione, di tutto il resto della trama. Attenzione, questa distinzione è molto diversa da quella precedente emersa dal confronto tra Rayearth e RG Veda: in quest’esempio ci si è limitati ad affermare che in entrambi due fumetti la tecnica di avvincimento sia presente e che più di altro sia il tipo di narrazione a differenziarli. I due livelli della “tecnica della sorpresona”, invece, sono strettamente caratterizzanti nei confronti della sorpresona stessa e non vengono alcun modo influenzati dal tipo di narrazione che sta alle spalle dell’imminente conclusione della trama. Bisogna inoltre aggiungere che la sorpresona del primo livello ha come scopo il puro avvincimento e per questo rivela degli eventi in più, fondamentalmente non necessari alla trama e che, volendo, potrebbero essere tagliati senza considerevoli perdite. La sorpresona al secondo livello, al contrario, punta sempre sull’avvincimento, ma rivela anche una serie di eventi strettamente necessari, dei fatti la cui mancata esposizione comprometterebbe irreparabilmente il significato generale della vostra trama.
Si pongano adesso due esempi molto caratterizzanti di questa tecnica di avvincimento, uno per entrambi i livelli, in modo che possano apparire più chiare le differenze tra i due senza possibilità di fraintendimento.
– Il livello più semplice: classico esempio dei film in cui lo scopo è quello di uccidere uno spietato mostro sanguinario. Molto spesso, infatti, la conclusione delle trame di questo genere, ovvero poco dopo che gli eroi buoni hanno ucciso il mostro cattivo, rivela che il mostro non è morto del tutto come sembrava, ma che, contrariamente ad ogni aspettativa, è gravemente ferito (ma vivo), o che aveva dei figli, oppure che non era l’unico esemplare della sua specie. Il pericolo potrà, quindi, tornare a manifestarsi. Si tratta di un particolare che, in teoria, dovrebbe raggiungere un netto contrasto con lo stato di pace che i protagonisti hanno raggiunto dopo aver ucciso l’antagonista. (A dire la verità oltre che per l’avvincimento questa tecnica è molto funzionale anche per dare un seguito al film con un secondo episodio, ma preferirei non aggiungere altro per non entrare in polemica…).
– Il livello più complesso: quello del film Sixth Sense ad esempio. Il sorpresone finale non è, infatti, solo fine a se stesso, ma costituisce un particolare necessario per la comprensione a tutto tondo degli eventi narrati nelle due ore precedenti. Conciliando queste due esigenze il risultato è quantomeno garantito. Che questo particolare faccia inoltre riflettere sul fatto che “prendere due piccioni con una fava” con una certa trovata durante la stesura di una certa storia significhi attribuire un grande valore aggiunto alla stessa. Potremmo anche chiamare questo fenomeno “tecnica di avvincimento dei due piccioni”.
Un solo problema, utilizzare la “tecnica della sorpresona” al secondo livello si fa di giorno in giorno più difficile, poiché giorno dopo giorno si fanno più scaltri ed accorti gli spettatori stessi.
E’ necessario introdurre ora un’ulteriore suddivisione delle trame che fanno uso della “tecnica della sorpresona”. Esistono trame che danno per scontato il tipo di finale e che fin da subito “avvertono” lo spettatore che l’atto conclusivo sarà di tipo a sorpresa, mentre ne esistono altre che nascondono questo particolare, cosicché solo un occhio acuto si possa render conto del tipo di finale che attende lo spettatore. Ad ogni modo, entrambe sono chiaramente accomunate dal fatto che con due sole parole sia possibile rovinare la sorpresa ad un futuro spettatore e rendergli inutile la visione del film. Il già citato “Sesto senso” appartiene evidentemente al secondo genere di trame (“sorpresona del secondo genere”): lo spettatore viene distratto dall’abilità del protagonista di capire il ragazzino che vede i morti e così non è più portato a pensare cosa sia stato di lui dopo la sparatoria. Appartengono al primo genere, invece, le trame dei gialli (“sorpresona del primo genere”). Infatti in esse si fa uso della “tecnica della sorpresona” materializzata dal nome dell’assassino. Nei gialli, però, è evidente fin dal primo istante che la vicenda si concluderà proprio con lo scoprire chi è l’assassino. Si dichiara apertamente l’uso della “tecnica della sorpresona”, perché è oramai negli schemi stessi del giallo affidare la conclusione inaspettata della trama al nome dell’assassino. O almeno, lo sarà fino a quando qualcuno non userà questa convinzione del pubblico per creare una sorpresa nella sorpresa. Chi ha orecchi per intendere, intenda. Esatto, si fanno sempre nuovi tentativi per rendere più avvincenti i gialli, e molte tecniche di avvincimento sono nate così, ma per quanto ne so nessuno ha mai pensato di utilizzare la tecnica di avvincimento numero uno (Vd.) per un giallo. Nessuno ha mai pensato di violare le “tecnica della sorpresona” per i gialli, nessuno ha mai pensato, cioè, di separare concettualmente il finale a sorpresa con il momento in cui si scopre il nome dell’assassino (oppure con il nome stesso). La stessa Agatha Christie, la signora del giallo, ha cercato di innovare, di spingersi sempre oltre il prevedibile o l’immaginabile, ma i suoi sforzi si sono sempre concentrati nel mascherare l’identità dell’assassino, e non nel fornire un finale veramente alternativo ad una trama che aveva preso campo assumendo i toni del giallo.
Accennavo prima a varie tecniche di avvincimento che sono state utilizzate, se non del tutto coniate, per arricchire trame di film o libri gialli. Due tecniche che mi sembrano molto importanti: del “troppo palese” e del “pubblico furbo”.
Parliamo della prima delle due, definita “del troppo palese” perché guardando “Basic Instinct” non facevo che ripetermi “dai… non è possibile… è veramente troppo palese…”. In “Basic Instinct” c’è un omicidio, una vittima, un poliziotto ed un sospetto assassino, proprio gli elementi caratterizzanti di un giallo. Ora, il dubbio si riduce a questo: il sospetto assassino è proprio l’assassino? E se non è lui, chi altri è? In pratica i presupposti per un comunissimo film giallo da quattro soldi. Ma “Basic Instinct” si spinge oltre il giallo da quattro soldi perché in esso non si cerca affatto di nascondere il colpevole come invece è uso comune in qualunque giallo ma, anzi, non si fa praticamente nulla per nascondere la presunta colpevolezza [Attenzione: SPOILER] di Sharon Stone (che comunque è sul serio l’assassina). E c’è sempre qualche spettatore che rimane un po’ perplesso da questa novità e che cerca il trucco dove in realtà non c’è, perché la colpevolezza dell’attrice sarebbe “troppo palese”, abituato com’è a cercare sempre il colpevole più improbabile. E’ facile stupire ed avvincere uno spettatore se si conoscono le sue abitudini mentali e quegli atteggiamenti ripetitivi che egli da per scontato di ritrovare in qualsiasi trama. Tecnica di avvincimento (tuttavia, una specie di riformulazione della prima tecnica): colpire sempre in modo “sleale”. Devilman è un altro clamoroso esempio che si prende gioco delle convinzioni che il normale lettore possiede, come quella “dell’invulnerabilità del protagonista”, “dell’invincibilità dei personaggi buoni” e di questa tecnica di avvincimento fa il suo cavallo di battaglia.
Non finisce qui. Avrete forse notato la stretta parentela che intercorre tra quest’ultima tecnica di avvincimento e la già citata “tecnica di avvincimento della sorpresona”. In quest’ultima prendevamo in esame il modo di concludere una trama facendo uso di una rivelazione di particolare impatto. Tuttavia, bisogna considerare che una trama possa non solo concludersi tramite una bella sorpresa, ma che possa essere costellata per intero di belle sorprese e rivelazioni inaspettate. Esatto, stiamo facendo riferimento a ciò che nel linguaggio comune porta il nome di “colpi di scena”. Un colpo di scena è una situazione che assume un risvolto insospettabile, una rivelazione che non era possibile prevedere, un comportamento che non ha nulla da spartire con la morale comune. Un piccola, ma grande, sorpresa che viene inserita ovunque si ritenga di grande effetto all’interno di una trama. Il costante ed oculato uso dei colpi di scena costituisce una tecnica di avvincimento, o meglio, è la stessa “tecnica di avvincimento del colpire in modo sleale”: la chiameremo proprio, da ora in poi, “tecnica di avvincimento dei colpi di scena”. Ma come si costruisce un colpo di scena? Come si può esser certi che la “tecnica di avvincimento dei colpi di scena” sortisca sempre un buon effetto? Come già detto un colpo di scena è attacco basato sulle consuetudini e sulle convinzioni che il pubblico possiede. Ora, esistono due tipi di consuetudini e convinzioni: quelle dello spettatore in quanto essere umano, in pratica quelle a cui facevo riferimento parlando di Devilman dell’invulnerabilità del protagonista ecc., e quelle dello spettatore quanto spettatore stesso. Le prime sono convinzioni scaturite dal bagaglio di esperienze che ciascun essere umano medio si porta dietro dalla propria nascita, posto che ciascun essere umano, per scegliere il proprio modo di comportarsi e vivere la propria esistenza, abbia necessariamente bisogno di credere in qualcosa e di avere delle aspettative. Nell’esempio di Devilman sono certamente modi di pensare acquisiti in un passato più o meno remoto, forse ipotetiche conseguenze della precedente visione di quegl’inverosimili e buonisti cartoni animati Disney, tipo Bambi, Biancaneve e Cenerentola, ma, più probabilmente, un inevitabile traguardo mentale di un’infanzia felice. Le convinzioni dello spettatore quanto spettatore, a differenza delle precedenti, sono invece convinzioni che il pubblico non possiede entrando nel cinema (o aprendo ed iniziando a leggere un libro oppure fumetto), ma che inizia a formulare durante la visione dello stesso film. Nota bene, ancora: uno spettatore senziente ed autocoscienze non può fare a meno di creare in se stesso queste idee e convinzioni, a meno che non stia subendo passivamente il film, ma noi abbiamo escluso questa possibilità in apertura, nel discorso generale sulle tecniche, come condizione senza la quale non possa esistere avvincimento. Di cosa lo spettatore debba convincersi tocca allo stesso regista imporlo, tramite indirizzi e segnali ben precisi della trama, indirizzi che poi verranno violati tramite l’uso della rivelazione che prenderà corpo come colpo di scena. In pratica si cerca di stillare una sorta di messaggio subliminale nello spettatore, di convincerlo di qualcosa, di portarlo a pensare che un certo fatto avrà degli sviluppi ben certi e prevedibili, per poi comportarsi slealmente e contraddirlo proprio in ciò che dava per scontato.
La “tecnica di avvincimento della profezia” è una stretta compagna della “tecnica di avvincimento dei colpi di scena” perché i presupposti per gettare le basi ad un colpo di scena si ritrovano tutti nella stesura della profezia: il linguaggio ambiguo della profezia permetterà infatti di rivelare in un certo modo il futuro, in un modo che il pubblico interpreterà nella maniera più diretta e semplice possibile, ma che in realtà potrebbe avere dei risvolti diversi. Ed infatti toccherà al regista dimostrare che in realtà le parole della profezia avevano un altro significato e che i luoghi, i personaggi ed i fatti interpretati dal pubblico non erano in realtà quelli che la profezia aveva intenzione di coinvolgere. L’incomprensione (voluta) del pubblico è stata possibile solo per via dell’ambiguità delle parole che compongono la profezia stessa. E questa, se vogliamo, è proprio la chiave della “tecnica di avvincimento dei colpi di scena”. Il pubblico non solo non deve essere in grado di aspettarsi il soggetto della rivelazione (il nome dell’assassino, come abbiamo già visto ecc. ecc.), ma non deve affatto avere elementi per sospettare la stessa presenza di alcun colpo di scena e l’uso di questa tecnica di avvincimento. Questa “manovra” infatti risulta doppiamente avvincente, ed è anche per questo che una sorpresona del primo genere (dunque inattesa) sarà sempre e comunque più avvincente di una del secondo genere.
Sempre per la buona riuscita di questa sorpresa nella sorpresa è di particolare importanza essere in grado di camuffare efficacemente gli indirizzi che il regista vuole dare per il successivo colpo di scena, cosa per niente facile. Ma non solo, se voleste puntare ai colpi di scena tipo Devilman (quelli cioè che tradiscono lo spettatore tramite le sue convinzioni di essere umano) vi trovereste doppiamente in difficoltà e sareste costretti a sottostare ad un vincolo ben preciso: quello della trama assolutamente verosimile al 100%. Come mai l’esistenza di questo vincolo? Perché distruggendo i luoghi comuni del cinema e dell’immaginario comune finireste necessariamente per dare un tono realistico al vostro lavoro. Realistico perché i luoghi comuni del cinema (come la perenne vittoria del bene sul male, l’invincibilità dell’eroe di turno, in parte il realizzarsi dei sogni ed altre amenità del genere ecc.) sono frutto non di un’analisi o di una trasposizione veridica della realtà, ma di una sua interpretazione assolutamente falsa in chiave buonista. Pertanto la cancellazione tramite il colpo di scena di questi presupposti dello spettatore rappresenta anche una dichiarazione di intenti, ovvero quella del regista di proporre un prodotto veramente terra terra, reale, per niente distaccato e novellistico. E se l’ambientazione, il comportamento dei vostri personaggi ecc. ecc. dovessero andare contro questa dichiarazione di intenti allora avreste commesso un gravissimo errore di coerenza narrativa.
Il grande problema dell’attuazione di questo grande studio è che il pubblico, a forza di essere colto di sorpresa tramite queste convinzioni che costituiscono un suo punto debole, si fa ogni giorno più furbo e quindi si libera da ogni inibizione e da ogni atteggiamento mentale. Ma così facendo non si rende freddo e distaccato, bensì si abitua a non avere nessuna abitudine, sposta solo la sua consapevolezza e le sue aspettative ad un livello superiore. Quindi è più difficile prenderlo alla sprovvista, ma non per questo è impossibile.
Ci sono due strade per riuscire in quest’ultimo intento.
− Una è quella di fare sentire furbo il pubblico, per poi dimostrare che il regista è stato ancor più furbo di lui, in pratica la “tecnica di avvincimento del pubblico furbo” cui ho accennato precedentemente. L’altra è quello che il regista colpisca il punto debole dell’ultimo “livello di aspettativa” del pubblico e lo porti ad un livello ancora superiore.
− Che differenza c’è tra un bambino degli anni duemila ed un adulto degli anni duemila, entrambi che vedono un giallo?
Probabilmente la loro risposta alla domanda: “Chi è secondo te l’assassino?”.
Il bambino, nella sua ingenuità, potrebbe rispondervi “il maggiordomo” (l’assassino per il 90% delle volte).
L’adulto potrebbe pensarci un attimo di più, potrebbe pensare che il maggiordomo sia troppo palese e potrebbe rispondere diversamente.
Ognuna delle due figure ha dunque risposto alla domanda in base alla sue aspettative, in base alla sua esperienza passata, in base al suo “livello di aspettativa” (o “gradino di aspettativa”).
Forniamo la tabella generica dei livelli di aspettativa che il pubblico odierno (adulto e senziente) dovrebbe aver passato fino al giorno d’oggi:

– I livello di aspettativa: gli spettatori ingenui sono convinti che l’assassino faccia parte di un ristretto gruppo di individui sospetti. (Livello del bambino dell’esempio precedente)
(Il regista “li frega” attribuendo il ruolo di assassino ad un individuo insospettabile)

– II livello di aspettativa: gli spettatori si convincono di conseguenza che l’assassino possa essere un individuo insospettabile.
(Il regista “li frega” con il “troppo palese”, ovvero affidando il ruolo dell’assassino ad un personaggio dal ruolo primario)

– III livello: gli spettatori si rendono conto che un eventuale “troppo palese” rappresenti solo un trucco e che quindi il sospetto sia veramente l’assassino.
(Il regista “li frega” con la tecnica del “pubblico furbo”)

Osservando questo schema si evince come la tecnica del “troppo palese” conduca gli spettatori non solo ad un terzo gradino di consapevolezza, ma che in parte li riporti indietro anche al primo. In entrambi, infatti, è uno dei principali sospettati ad essere realmente l’assassino. Ogni gradino ha infatti duplice natura, almeno nel caso in cui la domanda che lo tiene in piedi ammetta solo le risposte si / no (Ad esempio: “è lui l’assassino?” “sposerà lei alla fine?” ecc. ecc.) Ogni livello ha il compito di rispondere alla domanda con una delle due possibilità, alternativamente si, no, si, no, si, no, e così via. Inoltre ogni gradino rappresenta un ampliamento rispetto a quello di due livelli sotto con la stessa risposta.
Nelle vesti di un regista inesperto potrei pensare di aggiungere ogni volta un livello, facendo conto che gli spettatori di un film siano rimasti al gradino di avvincimento subito precedente, quindi sarebbe facile stupirli e coglierli di sorpresa. Nel caso dell’esempio potrei quindi essere indotto a porre al quarto livello di consapevolezza l’ipotesi che l’assassino sia di nuovo un insospettabile, esattamente come nel caso di due livelli prima. Potrei farlo, ma solo se fossi sicuro della convinzione della maggioranza o dell’interezza degli spettatori che l’assassino è un sospettato (cioè, terzo livello di aspettativa), e solo se fossi sicuro che il pubblico non sia reso conto della ciclicità di questa tabella (si, no, si, no, si, no). Peccato che queste due possibilità siano praticamente impossibili a realizzarsi, in particolar modo la prima delle due. Ed inoltre, per quanto la tabella sia ciclica, si deve tener conto che ad ogni passaggio di livello il pubblico consideri anche le esperienze dei livelli precedenti e non solo le abitudini dell’ultimo.
Come si vede, la famigerata tabella è dunque ad uso puramente esplicativo e può funzionare approssimativamente per i primi tre o quattro livelli, ma non conviene assolutamente portarla avanti in centinaia di passaggi, pena lo spreco di molte energie per un risultato altamente incerto. Questa stessa è certamente la migliore dimostrazione della validità della tecnica di avvincimento numero uno, del “non ci sono regole” e del “non ci devono essere perché fuorvianti”.
I film che si fermano al primo livello di aspettativa sono del tutto scomparsi, ma non perché la loro formula non possa più avvincere, ma solo perché questi film si portano un etichetta tipo “vecchio stile” che non fa più molta presa sugli spettatori di oggi, visto che puntano su un’ingenuità che il pubblico odierno non possiede più o ha dimenticato. Se il regista sceglie quindi che l’assassino dovrà appartenere alla ristretta cerchia di individui sospetti è dunque consigliabile usufruire direttamente della “tecnica del troppo palese”, forse non più validissima, ma comunque più moderna.
I film del secondo livello sono ancora oggi validi, ma a forza di individui inaspettati ed invenzioni macchinose il genere è giunto ad un punto di saturazione ed accade talvolta che lo spettatore non pensi nemmeno più ad anticipare il nome dell’assassino, ma che aspetti pazientemente che sia il dipanarsi degli eventi a portarlo a galla. Ci vuole qualcosa di nuovo che lo stimoli. Quel qualcosa di nuovo è stato tentato con la “tecnica del troppo palese”, ed in parte direi che l’esperimento è riuscito, ma ad un prezzo. Al prezzo che l’etichetta “film vecchio stile” si sia trasmessa dai film del primo ai film del terzo livello a causa della somiglianza cui accennavo prima. La mancata ingenuità del pubblico ha portato ancora una volta questa buona idea a bruciarsi troppo presto, o meglio, il pubblico ha perso ingenuità prima che il cinema e registi vari se ne rendessero conto e prima che essi rimediassero a ciò con tecniche veramente efficaci. Di conseguenza si è alla fine violata la prima tecnica di avvincimento, almeno nella sua formulazione secondo la quale sia il cinema a dover anticipare il pubblico, e non viceversa.
Temo, tuttavia, di essermi perso per strada. Qual è la tecnica che permette di fare a meno dei freddi calcoli matematici della tabella dei livelli di aspettativa? Quella a cui ho più in alto accennato come “far sentire furbo il pubblico per poi dimostrare che il regista è stato ancor più furbo di lui”. La tecnica, appunto, del “pubblico furbo”. Il regista sceglie inizialmente di utilizzare una tecnica di avvincimento semplice semplice, di caratterizzare la sua trama come di basso livello di aspettativa, o di inserire un inganno che possa però esser facilmente risolubile. E’ sufficiente anche un qualunque espediente che dia al pubblico l’impressione di aver scoperto la presenza di un trucco o di aver risolto un mistero, cosicché gli spettatori, certi di aver evitato il tranello, abbasseranno il livello di aspettativa insieme alla loro attenzione e concentrazione. E sarà in questo momento di distrazione che il regista sarà in grado di sorprendere il pubblico ancora una volta, mostrandogli che l’altro inganno era solo un trucco e che averlo scoperto lo ha solo trascinato in un’altra trappola. Come? Il regista non dovrà fare altro che scegliere il modo per far sì che il sospetto del pubblico non trovi riscontro nella trama, ma che anzi “egli si aspettasse che gli spettatori si aspettassero”. Il discorso si è fatto uno scioglilingua. Molto meglio fare un esempio piuttosto semplice (per non dire banale ed infantile): A. ed F. si stanno dirigendo in facoltà a piedi, dopo aver lasciato la macchina. Poco prima della svolta di un angolo di un palazzo A. decide di fare uno scherzo ad F. e lo anticipa lungo il cammino. Ma F. non è scemo, sa che quando svolterà lui l’angolo troverà A. che lo aspetta per fargli prendere uno spavento o qualcosa del genere. Quindi F. esita un pochino per spazientire A., si posiziona lui stesso dalla parte opposta dell’angolo in cui si aspetta di trovare l’amico e, ad un certo punto salta fuori, aspettandosi di essere lui stesso a sorprendere A.. Ma dall’altra parte dell’angolo non trova nessuno e rimane un attimo interdetto. A questo punto una mano gli tocca la spalla ed una voce gli sussurra “BUH!”: è A.. Al di là di come A.. abbia fatto (dopo aver girato l’angolo è solo ritornato alle spalle di F. nascondendosi alla sua vista con le macchine vicine) è interessante lo svolgimento del trucco in sé. In quest’esempio, infatti, F. rappresenta il non più inerme pubblico degli anni 2000, caratterizzato da un alto livello di aspettativa e sicuro di riuscire a smascherare il trucco di A., mentre quest’ultimo rappresenta il regista degli anni 2000, perfettamente consapevole che certe semplici trovate sono oramai alla completa mercé degli spettatori comuni. Egli quindi programmerà un semplice trucco (girare l’angolo) certo che il pubblico sarà pronto a smascherarlo (F. si posiziona dall’altra parte opposta dell’angolo) e così avrà il mezzo per sorprenderlo due volte (F. non trova A., F. è colto di sorpresa alle spalle da A.) nel momento in cui esso si crogiolerà nella convinzione di aver scoperto il presunto tranello. Non che questa tecnica possa dirsi la “tecnica finale” ma, svolgendosi in più passaggi, è più complessa da riconoscersi e sospettarsi. Ovviamente usarla a ripetizione porterebbe solo a renderla inutilizzabile, ed anche in questo caso il pubblico si ritroverebbe ad aver salito un nuovo gradino di aspettativa. Ma così facendo, ovvero cercando di scoprire gli elementi di un processo così macchinoso, perderebbe la lucidità per essere al sicuro da altre tecniche più semplici, quali il troppo palese. Il pubblico non è mai veramente al sicuro.
Siamo oramai giunti verso la fine del nostro viaggio attraverso le tecniche di avvincimento, ma prima di concludere vorrei proporre qualche ulteriore riflessione. Come si è visto nelle ultime righe il mondo dei gialli è forse quello che si è spinto più in la con l’uso e la teorizzazione di vecchie e nuove tecniche di avvincimento, ma ci si è mai chiesti il perché? Perché proprio il giallo ha fatto tutta questa strada? Quale l’origine di tanto successo? E perché il “giallo” è diventato un genere a se stante se pensiamo che in realtà esso non rappresenta altro che una sottocategoria del genere “commedia” (si tratta sempre di rapporti interpersonali)? Perché il giallo è il genere che più di qualunque altro è caratterizzato dall’elemento “morte”, e di esso ha fatto la sua “condizione necessaria” di esistenza: nelle regole per scrivere un giallo c’è quella della presenza di una persona deceduta o di un cadavere. Ma perché, per quanto possa sembrare macabro, il pubblico percepisce così tanto l’avvincimento di questo genere narrativo? Perché la morte di una persona, specie se a noi cara, rappresenta sempre una sofferenza a cui rispondiamo con stati d’animo di tristezza e sgomento, e questo è il fenomeno più spontaneo e naturale della sfera umana. Anche con i personaggi di un film, di un libro o di un fumetto noi spettatori siamo in grado di instaurare un sottilissimo rapporto affettivo, niente di cui stupirsi dunque se la loro scomparsa riesce, se non a provocarci vero e proprio dolore, almeno a lasciarci una leggera sensazione di “disagio”. Per la stessa ragione il genere Horror sta subendo delle puntuali mutazioni e sta in parte copiando le caratteristiche di base del giallo. Dagli ingredienti con i quali è nato, “paura e spavento”, sta assumendo sempre di più i toni di “angoscia, mistero e sterminio”, ingredienti che al giorno d’oggi riescono ad avvincere molto di più lo spettatore ed a lasciargli dentro qualcosa di indelebile. Perché si è sentito dire di gente che durante il film “Il mistero della strega di Blair” se la rideva o, peggio ancora, dormiva? Perché in quel film si è puntato a riportare in vita i vecchi ingredienti della paura e dello spavento (esperimento peraltro riuscitissimo, secondo me), ma il film è stato anche pubblicizzato come il più horrorifico di tutti i tempi, ignorando che al suono della parola “horror” le aspettative del pubblico non sarebbero coincise con quello che esso avrebbe realmente trovato sotto i suoi occhi. In un certo senso inserire la morte di qualche carattere in una trama è essa stessa una tecnica di avvincimento, tecnica che ne “ La strega di Blair” è venuta a mancare o che, almeno, è appena accennata. Questo, lo sottolineo, in riferito all’elemento “morte” associato allo stato d’animo della sofferenza. In termini di avvincimento l’elemento “morte” è quello più potente, perché la sofferenza (o la tristezza e la paura) è forse il fattore che ha maggior presa sull’animo dell’essere umano (animo che viene condiviso dall’essere umano con il suo essere spettatore). Ma non è certamente l’unico, l’uomo è in grado di provare una vasta gamma di sentimenti, di emozioni e di sensazioni. Ed ognuna di queste manifestazioni della sfera umana può essere utile per generare avvincimento nello spettatore, attraverso l’immedesimazione e la compatibilità di quest’ultimo con uno o più caratteri presenti nella vostra trama. Per questa ragione il “fattore umanità” dei personaggi non deve mai essere sottovalutato, poiché contribuisce a rendere più solido il rapporto spettatore-personaggio. In un ipotetica scala di sentimenti volti a creare situazioni ricche di pathos ed avvincimento seguirebbero ipoteticamente l’amore, chiaramente, l’odio, l’invidia, la compassione, l’inettitudine e molti altri che tuttavia è impossibile descrivere ampliamente in questa sede: non si può insegnare alle persone a trasmettere dei sentimenti. Eppure non è mia intenzione sostenere che trame sanguinarie, sdolcinate, oppure piene di fantasia siano in assoluto migliori di trame che non lo sono. “Più avvincente” non è, infatti, sinonimo di “migliore”. Ne è un complemento, nel senso che per ottenere la trama “migliore” voi dovreste obbligatoriamente tenere conto tra i tanti fattori di quello dell’avvincimento e vi rimarrebbe il compito di scegliere il dosaggio di questa e delle altre componenti. Si possono creare infatti dei veri capolavori anche privi del seppur minimo accenno alla fantasia o senza che ci sia un solo carattere a rimetterci la vita. Si possono creare delle trame dalle sensazioni forti sempre rinunciando al sangue ed alla fantasia, e persino rinunciando all’uso di una tecnica di avvincimento, rinunciando all’uso di due tecniche, o riducendosi addirittura all’uso di un’unica tecnica di avvincimento. Ma questo a cosa potrebbe mai esservi utile? Le grandi opere, quelle conosciute come capolavori, sono sempre caratterizzate dal massimo sviluppo dei fattori che le caratterizzano, mentre i rispettivi registi, gli scrittori ed i mangaka, sono sempre caratterizzati dall’ambizione, dal desiderio di fare sempre del proprio meglio, dalla volontà di puntare, ed arrivare sempre più in alto rispetto ai traguardi fissati di volta in volta. Ed in fondo questo è un altro degli intenti che mi ero preposto nella stesura di questo documento: descrivere la natura dei canoni attuali dell’avvincimento.
E dunque?
Dunque, a parità di sviluppo degli altri fattori oltre all’avvincimento, sarà il film più avvincente quello che più si avvicina all’essenza del capolavoro, ed anche, probabilmente, quello che bene o male il pubblico e la critica ideali dimostreranno di apprezzare di più. E così, a parità di numero di tecniche di avvincimento utilizzate, sarà sempre il film più sanguinoso quello più avvincente agli occhi del pubblico, ed anche a parità di sangue, sarà la trama più fantasiosa quella che otterrà il giudizio di “più avvincente” dal pubblico. E così via, fino all’infinito.
Ma allora, se le cose stanno veramente così, cosa impedisce la diffusione a macchia d’olio delle tecniche in qualunque cosa abbia una trama?
Semplice, quattro fattori abbastanza distinti:
– Paura di non essere in grado di manipolare in modo soddisfacente processi così complicati, come le tecniche possono diventare.
– Paura di non riuscire più a migliorare i propri prodotti successivamente al grande exploit e conseguente fossilizzazione.
– Mancanza totale di ambizione da parte di registi, scrittori, mangaka.
Ma soprattutto il pensiero, e forse la speranza, che valga sempre e per tutto la prima tecnica di avvincimento: non ci sono regole.
In questo caso più una scusa che uno strumento per puntare al massimo risultato ottenibile.

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