Per favore, se dovesse venirmi di nuovo l’idea di redigere un articolo più lungo delle quattro pagine canoniche, FERMATEMI A TUTTI I COSTI, visto che da tale limite inferiore in poi il tasso di lavoro necessario cresce esponenzialmente (sono dieci giorni che scrivo!).
Ho consegnato il nuovo pezzo per il Notiziario GAF:
“FANTASCIENZA MANGA Parte VII – Masamune Shirow: Ghost in the Shell”.
Non posso lamentarmi di cosa sia venuto fuori -non è certo ai livelli imbarazzanti dell’articolo su Yas e Otomo- però non sono nemmeno completamente soddisfatto:
– In alcune occasioni tendo quasi a descrivere come vorrei che Gits fosse, e non come sia effettivamente.
– In altre lo descrivo in maniera quasi didattica, ma senza un’effettiva componente critica.
– In altre ancora, ripeto cose già dette negli articoli precedenti della serie, senza porre in evidenza come lo stesso fenomeno si sia invece debitamente evoluto in espressioni diverse. Insomma, sono stato frammentario e non ho gestito bene la continuinity attraverso tutti e sei i pezzi. Me li sarei dovuti rileggere tutti quanti per bene e continuare a costruire su ciascuno di essi, solo che il lavoro si sarebbe fatto ancora più lungo e complesso…
A seguito riporto il manoscritto del pezzo, privo delle immagini, note e didascalie supplementari che accompagnano la versione definitiva dell’articolo.
” Concluso Appleseed e dimostrato con Orion di saper padroneggiare anche il genere umoristico, la sfida di migliorare se stesso e la propria tecnica dovette sembrare quantomai complessa, ma portò in eredità un ultimo grande frutto.
Il 1991 è l’anno in cui vede ufficialmente la luce la prima espressione di una sorta di progetto su larga scala che a Shirow ha donato fama e notorietà internazionale, quanta e forse più dello stesso Katshuhiro Otomo.
La prima comparsa di Ghost in the Shell avviene come pubblicazione su rivista (Young Magazine di Kodansha) e mantiene tutti i clichè più caratteristici del maestro.
Il genere è ancora una volta strettamente fantascientifico: l’informatizzazione ha raggiunto e coinvolto qualunque aspetto della vita quotidiana e lo sviluppo tecnologico ha azzerato il divario tra biologico e meccanico. Ciò significa che è una cosa del tutto ovvia e normale che l’essere umano comune abbia sostituito o integrato nel proprio corpo delle componenti meccaniche o cibernetiche per potenziare le proprie facoltà psichiche o motorie. Allo stesso tempo, esistono automi totalmente meccanici in grado di svolgere incarichi lavorativi troppo rischiosi o degradanti per gli esseri umani ed in taluni casi essi vengono realizzati con forme antropomorfe veridicamente perfette. Almeno da un punto di vista di forme, cioè, uomini e robot non sono più distinguibili. A differenziarli resta però un’importante caratteristica: il ghost (da qui il nome dell’opera). “Ghost” è un termine utilizzato per identificare l’anima, il concetto di personalità e di insieme di comportamenti e capacità senzienti legati alla propria esperienza storica: un essere umano, per quanto cybernetizzato, possiede sempre un ghost. Un robot, androide o cyborg, al contario, non possiede un ghost: per quanto le sue apparenze lo rendano simile ad un essere umano esso è solamente una marionetta dal comportamento preprogrammato. Non è sempre facile, tuttavia, tracciare la linea di demarcazione che distingue le due categorie: dove finisce un ghost ed inizia un programma di definizione del comportamento? Ed un essere umano nella forma di un ghost, può avere un corpo dalle forma, ad esempio, di un’automobile? Ed in tale caso, è un uomo o una macchina?
All’alba del ventunesimo secolo il tema del rapporto uomo-macchina inteso come fusione dei due può apparire oramai ovvio ed abusato, ma per l’inizio degli anni ‘90 (quando Internet e l’informatizzazione erano ancora agli albori) costituisce quantomeno una novità e denota una gran dose di lungimiranza, andando a caratterizzare l’opera di Shirow come un nuovo portavoce della piccola rivoluzione nel modo di pensare la fantascienza e di interpretare i ruoli delle macchine e degli individui al loro comando di quegli anni.
In tale contesto Ghost in the Shell -il manga principalmente, ma anche qualunque altra incarnazione del progetto- può essere inteso come una sorta di analisi intorno al concetto di “vita” e di “individualità” e delle ragioni di essere di entrambi questi fattori. Tezuka e Ishimori, con Atom e Cyborg 009, avevano simulato la possibilità che un Robot potesse essere considerato un uomo, sottolineando che l’umanità di un individuo risieda nella sua bontà e spirito di sacrificio, ma non avevano dato risalto ai termini (fanta)scientifici con i quali spiegare come ciò fosse possibile. L’indagine di Masamune Shirow è invece mirata a colmare proprio questo vuoto ed identifica nell’informatica e nel mare delle informazioni che viaggiano sulla rete il punto di contatto tra vita di tipo biologico ed artificiale. Con Ghost in the Shell vengono poste le basi per un’ideale chiusura del cerchio: uomini e macchine non esistono nella forma distinta in cui noi le intendiamo, esistono invece molteplici entità in grado di interagire con altre entità in forme più complesse e con potenzialità maggiori. Forse in questi ultimi casi possiamo parlare di vita, quel che è certo è che non possiamo parlare di “non vita” ai livelli più bassi della scala.
Tornando ad osservazioni più oggettive, il vero approfondimento delle complesse tematiche avviene principalmente nell’ultimo dei sette capitoli che compongono il manga, cioè quando si risolve la complicata indagine relativa al “Marionettista”. Il Marionettista (o Signore/Maestro dei Pupazzi) è una misteriosa figura dalle incredibili capacità di hacker i cui scopi misteriosi portano al ripetuto inquinamento di ghost o manipolazione dei software comportamentali di numerosi robot per fini criminali. Del caso “Puppet Master” è incaricata di occuparsi la Nona Sezione della Commissione Nazionale di Pubblica Sicurezza, capitanata dal Maggiore Motoko Kusanagi.
Dopo Leona, Deunan e Seska, il Maggiore Kusanagi è l’ultima interpretazione femminista del ruolo di personaggio principale nell’opera Shirowiana, pur con qualche lieve differenza rispetto ai precedenti modelli, cosicchè sia possibile comunque parlare di “caratterizzazione”. Il Maggiore è un cyborg completo, vale a dire che il suo corpo è interamente meccanico, tranne che per il suo cervello, il quale, benchè potenziato artificialmente, rimane comunque di natura biologica. Questo fa sì che in lei sia identificabile a tutti gli effetti un ghost. Come il suo ruolo di comando impone, il Maggiore è dotato di straordinarie capacità di hacker, di potenzialità fisiche formidabili e di eccezionali doti di comando. Da un punto di vista psicologico è simile Deunan, generalmente fredda e determinata, ma diversamente dalla protagonista di Appleseed, anche particolarmente riservata ed emancipata. Non le mancano scene umoristiche di perdita del controllo, ma non arriviamo mai ai veri e propri eccessi di Leona o Seska. Diversamente dal manga, il primo film di Ghost in the Shell tende inoltre a sottolineare che la personalità del Maggiore, in questo caso ombrosa ed emotivamente instabile, è colma di dubbi di natura etica in merito alla propria natura di cyborg completo e, allo stesso tempo, che non manca di tormentarsi in merito al significato di sentirsi uomo quando il proprio corpo è quasi interamente artificiale.
Il primo film di Ghost in the Shell è un sunto in 80 minuti degli episodi salienti del manga (quelli incentrati sulla figura del Marionettista), ma per certi aspetti se ne distacca molto, con relativi benefici e relativi svantaggi. Tra gli svantaggi principali è possibile annoverare l’obbligo di concentrare l’azione in un solo episodio, operazione che ha reso necessario il taglio di componenti non strettamente necessarie alla comprensione della trama, ma che invece costituiscono nel manga un prezioso arricchimento nella descrizione dei personaggi, dell’ambientazione e di situazioni non meno importanti della stessa vicenda principale. Ottanta minuti, inoltre, non sono sufficienti per assecondare e porre in scena le complesse tematiche di Ghost in the Shell, con il risultato che buona parte dell’analisi Shirowiana è andata perduta, mentre ciò che ne è rimasto emerge solo con frammentarietà ed a tratti in modo non debitamente circostanziato. La semplificazione generale del progetto, d’altro canto, ha restituito una buona dose di effettiva comprensibilità e fruibilità all’opera originale, di non immediata lettura. Come era inevitabile per un manga tanto ambizioso del maestro Shirow, ritroviamo in Ghost in the Shell una cospicua dose di ermetismo. Benchè nel corso dei sette episodi del manga si possa avere un’idea precisa dell’andamento della trama a livello generale, è talvolta impossibile fare chiarezza assoluta sull’evoluzione vignetta dopo vignetta della stessa. Ciò che si vuole dire è che in un buon fumetto non basta che ogni evento sia frutto di una serie concreta di circostanze ed eventi scatenanti nella forma di sequenza strettamente concatenata, ma è necessario che questo procedimento di logica ed univoca consequenzialità narrativa sia comprensibile anche al lettore attraverso un efficiace lavoro di trasparenza dello script. A Ghost in the Shell possiamo invece imputare ancora una volta una quasi totale mancanza di tale trasparenza, che si manifesta spesso in un’infruttuosa complessità dei dialoghi (Appleseed), alle volte in un ritmo eccessivamente frenetico dell’azione che lascia per scontato molti eventi (Dominion) e, alle volte, in un utilizzo astruso di eventuali termini tecnici (Orion). In molte occasioni si è puntato il dito contro questo difetto stilistico di Ghost in the Shell ritenendolo un chiaro segnale di una grande falla nella preparazione artistica di Shirow, ma è certo che il successo del manga sia stato alimentato anche dagli ingenti sforzi profusi dai lettori nel tentativo di carpirne qualunque segreto e di apprezzare gli aspetti più profondi e filosofici della sua indagine.
Nel confronto tra il manga e l’omonimo film emerge un ultimo aspetto degno di nota: il modo un cui sia stata interpretata l’ambientazione. Come di consueto per Shirow, nel manga tale aspetto gode di una certa importanza, ma in questo caso non raggiunge i livelli di sofisticazione di Appleseed. Newport City, città ove si svolge per intero la narrazione, è la nuova capitale del Giappone, un complesso nodo politico ed economico dove le superpotenze mondiali si incontrano per attuare manovre internazionali di potere, denaro e notorietà. Newport City, tuttavia, è anche una città ove si alternano con pressanti contraddizioni ricchezza e povertà, passato e futuro, apertura ed intolleranza, degrado e benessere. Contrariamente a tale ricostruzione, il film animato, annulla invece qualunque dualità e pone in scena solo gli aspetti più negativi del binomio, con il risultato di uniformarsi completamente alla oscura visione cyberpunk ipotizzata da Philip K. Dick. Per ridare maggiore fedeltà al background bisognerà attendere Stand Alone Complex, serie televisiva del 2002.
Una volta concluso Ghost in the Shell, Shirow iniziò a lavorare con ritmi molto più irregolari e solamente dopo dieci anni (2001) il pubblico ebbe modo di leggere Ghost in the Shell – Manmachine Interface, seguito ufficiale del manga del 1991, ma è lecito dire che ebbe in parte modo di pentirsi di averlo atteso tanto a lungo.
In primo luogo, l’ermetismo di Shirow raggiunge in questo caso il vertice assoluto e sfocia nella totale ed assoluta incomprensibilità, ad un livello di fisica illeggibilità non riscontrata in nessun altro fumetto per il grande pubblico e non. Non è pertanto possibile dare giudizi o formulare analisi in merito alla trama, agli aspetti da essa trattati, in merito ai personaggi ed in merito all’ambientazione (che sembra vagamente coerente con quella descritta nel fumetto precedente).
Il ribaltamento introdotto in termini narrativi viene confermato anche graficamente. Il primo Ghost in the Shell denotava una cura della componente grafica certamente di alto livello: ogni vignettta era sempre ricca di particolari ben delineati, il character design molto personale ma sempre più pulito ed elegante, l’uso dei retini deciso ma equamente dosato, ben asservito a valorizzare il segno delle chine e non a coprirlo. In Manmachine Interface, tutto questo viene mantenuto ed ulteriormente perfezionato ad impensabili livelli di sfarzo, ma assistiamo anche ad un proliferare del numero di pagine a colori, ognuna delle quali realizzata per la prima volta in computer graphic, abbandonando cioè la specialissima tecnica di fotocopia a colori dei minerali. Ad apparire quantomeno fuoriluogo è tuttavia l’uso spregiudicato dei Fan-Service: se fino a Ghost in the Shell il femminismo di Shirow era rimasto vincolato alla scelta del sesso del protagonista, all’esaltazione delle sue eroriche capacità e al suo bell’aspetto, in Manmachine Interface esso esplode in un proliferare di inquadrature gratuite di nudo femminile (anche in un paio di scene di scene di sesso esplicito) e nell’uso estremo di abiti succinti e di qualunque particolare volto a sottolineare la sensualità di tutti i personaggi femminili, che rispetto alla prima opera si sono moltiplicati a vista d’occhio.
Le ragioni di un cambiamento di stile tanto marcato non sono note, tuttavia, è doveroso segnalare che Manmachine Interface è solamente il secondo tentativo di realizzare un seguito a Ghost in the Shell. Sono state pubblicati sotto il titolo Ghost in the Shell 1.5 – Human Error Processer alcuni capitoli che narrano di alcune indagini della Nona Sezione collocabili temporalmente a seguito della vicenda del Marionettista e realizzati nella seconda metà degli anni novanta. Si tratta di episodi autoconclusivi che all’apparenza non hanno una trama unificatrice di fondo (e forse per questo Shirow decise non fossero adatti a costituire un seguito ufficiale), ciascuno dedicato all’approfondimento di aspetti come la personalità ed il background storico di un agente della Nona Sezione di cui il Maggiore Kusanagi era al comando.
Human Error Processer è stato l’ultimo fumetto di Shirow che il mondo abbia potuto leggere, ancora in parte amareggiato da Manmachine Interface, più spesso grato nei suoi confronti di aver spinto ai livelli che abbiamo osservato la macchina della Fantascienza Made in Japan.
Dalla fine degli anni novanta, Masamune Shirow ha iniziato a lavorare come illustratore, dando vita a quattro libri di immagini (principalmente dedicati ai personaggi dei suoi primi fumetti), numerosi portfoli e diversi calendari. I soggetti sono ancora una volta disinibite fanciulle in abiti succinti e vesti seducenti, come nella più bassa scuola giapponese di fan-service.
Dimostrando anche in questo caso una certa lungimiranza, Shirow ha scelto e portato avanti la tecnica della computer graphic per la colorazione delle tavole di tutte le sue produzioni più moderne ed i risultati, da un punto di vista puramente estetico, sono degni di nota, tanto è vero che Shirow è attualmente considerato come uno dei più abili e quotati coloristi informatici del Giappone. Nonostante ciò, siamo passati nell’arco di un decennio dalla stesura di uno dei migliori fumetti di fantascienza ad uno dei più biechi strumenti commerciali di pseudo-arte: “la donnina”.
Lasciamo a ciascun lettore l’incarico di trarre le proprie conclusioni. ”
Notiziario GAF n° 32- Giugno 2008.
La lettura dell’articolo mi spinge a fare qualche critica, spero benevola. Premetto subito che sono un estimatore di Appleseed, ma non di Ghost in the Shell: un’opera che, secondo me, è riuscita solo a metà e che l’autore ha successivamente rimaneggiata, poi ampliata ed infine scempiata con l’ultima ignominiosa parte, come sottolinei giustamente. Detto questo come premessa, sovverto il consueto ordine di scrittura di ogni commento, posponendo il corpo del commento agli appunti ed alle critiche sparse:
1) “continuinity” (sic!), secondo me parole come “continuum”, “consecutio”, (con)sequenzialità od altro ci sarebbero state meglio di “continuity”, ma è una questione di gusti lo so…
2) “un robot, androide o cyborg, […]”: questa frase potrebbe confondere il lettore nel pensare che i cyborg sono robot, in realtà propriamente i cyborg sono umani a cui sono state impiantate componenti artificiali non biologiche (cibernetiche e non bioniche).
3) “l’inizio degli anni ‘90 (quando Internet e l’informatizzazione erano ancora agli albori)”: Internet esiste dagli anni ’70 ed ha fornito spunti inesauribili alla narrativa e cinematografia degli anni ’80, mentre il world wide web allora non esisteva (tranne che nei laboratori del CERN)
Sperando (vanamente) di non essere già stato troppo logorroico passo a spezzare una lancia a favore della presunta incomprensibilità delle sceneggiature di Masamune Shirow. Bene, è indubbio che non si tratti di un autore che prediliga la linearità dei dialoghi e la semplicità dell’ambientazione per favorire il compito al lettore, ma è una mia ferma tesi che almeno parte di quella incomprensibilità sia dovuta alla scarsa alfabetizzazione dei traduttori delle sue opere. Leggendo, e magari pure rileggendo, i manga di Shirow si vede come ci sia una minuziosa e maniacale attenzione alla costruzione di un’ambientazione credibile e coerente. Per favorire questa credibilità e verosimiglianza, Shirow architetta i dialoghi calandosi completamente nei personaggi, nel loro tempo e luogo, senza tenere in conto l’estraneità a quel luogo e tempo del lettore. È un po’ come se facessimo leggere ad un uomo del 23° secolo un dialogo fra due persone su tg2 motori: nel 23° secolo magari non ci saranno più le automobili, né la televisione, né tantomeno il tg2; di conseguenza il dialogo risulterà quasi incomprensibile. Questa è una scelta stilistica e non una pecca dell’autore, soprattutto in opere sufficientemente lunghe, tipo Appleseed, dove il lettore ha il tempo di ambientarsi nel mondo del fumetto e tale problema scompare col passare delle pagine. D’altra parte una tale minuzia e pignoleria meriterebbe una traduzione altrettanto accorta e rifinita, per evitare di creare confusione in un racconto in cui l’esattezza del significato dei termini è fondamentale ai fini della comprensione dell’ambientazione e di conseguenza dell’intera storia. Purtroppo questa rifinitura delle traduzioni non la vedo ed anzi mi pare che gran parte dei termini vengano tradotti con superficialità e con scarsa attenzione alla salvaguardia del senso dei dialoghi. Anzi, date le deprecabili sgrammaticature quasi onnipresenti sulle pagine italiane dei manga, ho addirittura dei dubbi che i traduttori o gli eventuali censori delle case editrici rileggano quello che stanno per mandare in stampa. Forse in ragione dell’equazione tempo=denaro. Comunque l’ignoranza dei traduttori non si limita alla starcomics od ai manga, mi sento di affermare senza tema di repliche che buona parte della letteratura viene tradotta coi piedi, anche quando l’editore è una casa editrice affermata come Mondadori o Rizzoli. Soprattutto le traduzioni e ritraduzioni recenti sembrano fatte da analfabeti ignoranti, tanto che tuttora mi vengono gli incubi se ripenso alla nuova traduzione fatta da Mondadori dei racconti di Poe: il traduttore era talmente ignorante da non sapere che “buffalo” in inglese significa sia bufalo che bisonte e talmente ignorante da non sapere che nelle pianure del Nord America ci sono i bisonti e non i bufali. Non oso immaginare cosa possa succeder in una traduzione dal giapponese.
Finalmente ho finito.
Mi sento esentato dal commentare sul blog per un po’ ;-P
Condivido a pieno i primi punti, ho qualche riserbo sulla tua teoria sull’incomprensibilità.
Blade Runner, film e non libro, si comporta nello stesso modo. Gibson (libri e non i poveri film) fa la stessa cosa: “Non ti spiego niente, perché nessuno in quel mondo si metterebbe a spiegare solo per far capire al lettore, via via imparerai le regole di quell’ambientazione”
Eppure riescono a far trasparire tutto con chiarezza, nel giro di poco tempo le domande hanno una risposta senza bisogno che per questo il lettore si debba estraniare dalla narrazione. Senza che si rompa il senso di “sospensione”.
La regola generale che le cose non debbano essere spiegate ma dedotte è tenuta in considerazione dalla maggior parte degli autori (con poche astiose eccezioni), ma questo non toglie che si debba anche affinare la tecnica per far arrivare le informazioni “a modino”.
Secondo me a Shirow questo manca, un esempio è l’utilizzo da parte sua dei baloon-spiegazione, dei riquadri di “voce narrante” insomma. Lì non c’è dialogo che tenga, vuol dire che ti prendi uno spazio per spiegare un retroscena o fare una precisazione.
Per il resto sono d’accordissimo con te ^^
I post precedenti mi spingono ad avanzare alcune considerazioni e ad effettuare alcuni chiarimenti.
2) Volevo solamente dire che qualunque fosse la forma del corpo, era la presenza di un ghost a determinare la natura umana del soggetto. Ma, in effetti, non so se possa avere senso parlare di cyborg (uomini con componenti artificiali) privi di ghost…
3) In questo caso mi sono espresso male “volontariamente”. Il WWW è nato nel 1991 e pubblicamente nel 1993, quindi i tempi tornano. Solo che tra dire “il www era agli albori” e “Internet era agli albori” mi sembrava più “leggibile” la seconda formula, benchè non formalmente corretta (la gente comune non ha la minima idea di che differenza ci sia tra l’una e l’altra dicitura). Comunque non è una valida giustificazione, lo ammetto.
Sulla qualità delle traduzioni dei manga di Shirow, non mi permetto di sindacare, poichè non ho (ancora) i mezzi per farlo. Dico solo che ogni edizione di Appleseed (e siamo alla terza) copre di insulti la qualità delle precedenti.
Sull’ermetismo di Shirow, non penso di aver molto da aggiungere rispetto a quanto detto nell’articolo. Vorrei magari far notare che il maestro non è l’unico a “calarsi nei personaggi”, ma in ambito di fantascienza-manga di alto livello è la prassi anche per Endo e Yoshino ed in entrambi i casi siamo su livelli di trasparenza completamente diversi, quindi anche a mio giudizio come giustificazione tiene solo in parte.