Dopo le ultime due proiezioni, che mi hanno lasciato piuttosto freddo, sono tornato al cinema in cerca di un bel riscatto. L’ho clamorosamente trovato.
Ho visto “Burn after reading” dei fratelli Cohen.
La formula è ben nota, ma ha uno stile così marcato da trascendere qualunque esigenza di voler innovare ulteriormente o, semplicemente, di voler cambiare qualcosa. Benchè in questo film qualunque aspetto dello stile Cohen sia esaltato alla massima potenza, la meccanica della narrazione è semplice: si prendono dei personaggi, li si caratterizzano sul modello dell’americano medio (inconsapevole, insoddisfatto e privo della minima, ragionevole scala dei valori) con piccole variazioni sul tema e si fa capitare tra le loro braccia un elemento di pesante disturbo alla ruotine quotidiana. A quel punto, la stringente caratterizzazione dei personaggi muoverà gli individui in automatico, fino ad un inevitabile, tragico (per taluni pti di vista) epilogo.
Ma scendiamo un po’ di più nel dettaglio. In “Burn after reading” non ci sono personaggi, solo uomini. Nessuno dei ruoli infatti è portavoce di un briciolo di eroismo, di romanticismo tutto cinematografico o di esaltazione dei buoni valori. Al contrario, ciascun individuo manifesta un’ingente quantità di aspetti negativi della vita sociale moderna e, soprattutto, un paio di deviazioni psicosomatiche o fissazioni patologiche, troppo peculiari per essere frutto di banale estro artistico dello sceneggiatore. All’atto pratico, questo film è un altro esempio per il quale, sebbene addensata in due sole ore, si può parlare di reale e concreta caratterizzazione dei personaggi, come se ci fosse un vero, profondo e netto solco sul finire dell’individualità di un personaggio e l’inizio di quella di un altro. Come se non bastasse, la vera esaltazione di questo aspetto non è fine a sé stessa, ma viene compiuta solo attraverso il dipanarsi della trama. A parte il fatto che è difficile capacitarsi di come un intreccio così complesso, ricco di personaggi e costruito su tale quantità di livelli narrativi, possa riuscire a non cadere in contraddizione con tale disarmante semplicità, in questo film non esiste la casualità. Ogni sequenza, azione o situazione ha un suo perchè che lo spettatore è in grado di seguire, comprendere e giudicare come “inevitabile”, perchè risultato di molteplici cause scatenanti ad una sola via di uscita. Per chiudere il cerchio, nella maggior parte dei casi, le cause scatenati degli eventi sono proprio i tratti di caratterizzazione dei personaggi o le loro deviazioni o particolarità. Non stupirebbe se questo film fosse tratto da una storia vera, tanto è stretto il rapporto azione-personaggi. Ovviamente si tratterebbe di uno di quei casi, quantomeno eclatanti, in cui la realtà supera la fantasia.
Non c’è molto da aggiungere. L’enorme cast di attori è stratosferico e si vede, con la messa in atto di performance veramente degne di lode (anche il doppiaggio tiene alla grande). Il senso dell’humour nero trasmette ironia e sconforto con sottilissima efficacia e naturalissima trasparenza. Il clamoroso ribaltamento dei valori cinematografici (se sei buono sarai ricompensato, sempre che tu non venga ucciso a colpi di accetta) riempie tutti quei piccoli spazi lasciati aperti da sequenze meno ricche di significato (se così si può dire). E andando a scavare si potrebbe osservare ancora molto altro (Dermot Mullroney compare almeno tre volte nel film e non è nemmeno accreditato nel cast!!!).
Riflettevo l’altro giorno sul fatto che i film basati su storie vere sono sempre solenni, poetici e ricchi di messaggi e di significato, ma da un punto di vista artistico e di estro cinematografico devono cedere il passo.
Non avevo minimamente ricordato che i Cohen sono gli unici a saper “raccontare” la verità.