Nuovo pezzo per il GAF.
Come promesso, tratta del tema della censura: la prima parte (di Sil) fornisce informazioni generali e tocca alcuni tasti che vengono sempre taciuti (o sapientemente ignorati) sull’argomento, la seconda parte (la mia) espone l’andamento del fenomeno in una ventina di anni di storia.
Benchè, per quanto riguarda la mia parte, le difficoltà di elaborazione del tema proposto fossero scarse, sono piuttosto soddisfatto del risultato finale, sia in termini espositivi che in termini editoriali.
Al solito, riporto di seguito il manoscritto del pezzo, diviso in due parti e privo di figure e didascalie (peccato, perchè in quest’occasione non sarebbero da sottovalutare).
– IDEE AL TAGLIO –
TERMINI GENERALI di Sil
Censura: azione di controllo della comunicazione verbale o di altri sistemi di espressione artistica o di informazione a opera di un’autorità.
Nel corso della storia la censura è stata attuata da parte di organi militari, politici, regliosi e goverantivi. Nella maggioranza dei casi si è trattato della repressione di temi politicamente o socialmente avversi all’autorità dominante, ma esistono in verità moltissimi casi più piccoli e ragionevoli.
Cerchiamo di guardare la censura almeno da due punti di vista e limitiamoci a relazionarla alle tematiche artistiche e narrative. Le correnti di pensiero più moderne dicono che una volta conclusa un’opera, si è liberi di prenderne visione o meno (che si tratti di un libro, un quadro, una canzone o un film), ma non la si può trasformare. Se un artista crea un fumetto, una casa editrice è libera di comprarlo o di ignorarlo, ma, in caso di acquisto, il suo contenuto, firmato dall’autore, deve restare tale, fermo e inviolabile. E poi al pubblico l’ardua sentenza.
Correnti di pensiero più reazionarie considerano invece la censura come parte integrante del processo di revisione e adattamento. Una parte importante in verità, perché è la voce di quegli esperti che devono considerare gli impatti sociali e giudicare se alcuni contenuti o espressioni possano veicolare messaggi o sensazioni troppo pesanti.
Entrambe le parti hanno le loro motivazioni. Gli artisti devono essere liberi di esprimersi, e al contempo sono uomini e donne che possono commettere errori di valutazione, o non aver considerato adeguatamente il target che la loro opera andrà a conquistare.
Tuttavia sarebbe anche logico supporre che tutte queste considerazioni debbano saltare fuori al momento della creazione dell’opera, tra autore ed editore, per esempio, e non a posteriori, con tagli e modifiche imposte da persone che non hanno partecipato al processo creativo.
Va da sé che il campo più delicato è quello che riguarda l’infanzia, e di riflesso almeno in Italia, il mondo dei fumetti e dei cartoni animati.
E’ palese che i prodotti occidentali (Bonelli, per esempio), siano soggetti a un vaglio molto più blando da parte degli organi di censura, mentre i manga hanno vita più dura. La risposta è banale, in Italia i manga sono diventati (erroneamente) emblema di un prodotto per piccoli, tanto che non se ne fa neanche più una distinzione tra titolo e titolo. I fumetti occidentali sono tradizionalmente abbinati a un target più adulto e meno bisognoso di protezioni.
Ma chi è che controlla?
La società controlla sé stessa tramite la creazione di associazioni onlus che si assumono la responsabilità di esaminare ed eventualmente intervenire nei casi più gravi. In Italia la principale associazione che si occupa di questi rilevamenti è il Moige (Movimento Italiano dei Genitori). Ovviamente queste associazioni non hanno l’autorità per fermare o modificare un’opera, si limitano a segnalare e motivare i loro dubbi al AGC (Autorità per la Garanzia delle Comunicazioni), il cui presidente è nominato dal Presidente della Repubblica e che ha il potere legale di imporre limitazioni o addirittura far chiudere programmi e edizioni.
Il compito dell’AGC è complesso, è giusto precisare che va al di là della censura e che si occupa di fatto di garantire l’equità dei mezzi di comunicazione, dalla par condicio dei comitati politici alla sostenibilità o meno di certi prodotti pubblicitari.
Quindi esistono associazioni che raccolgono segnalazioni e un’autorità a cui fanno capo. Ma quali sono i criteri in base ai quali si decide se un contenuto può passare o meno nel libero mercato? E quale teoria rende validi questi criteri?
La censura artistica oggi in Italia lavora su due fronti: quello più sottile che combatte l’aperta manifestazione di certi temi (politici o sociali) e quello duro della salvaguardia dei bambini.
Iniziamo col dire che tutte le motivazioni principali sono di carattere squisitamente morale. Per quanto ogni caso sia a sé ed esistano sempre delle eccezioni, è chiaro che la direzione generale in cui verte la censura è concorde con i valori suggeriti dalla religione cristiana.
Scendiamo nel particolare.
Cartoni animati e talvolta fumetti vengono censurati nel lessico, il Moige o altre associazioni fanno le loro segnalazioni e il prodotto viene tagliato di conseguenza. Osserveremo a breve alcuni specifici casi, ma forse nel quadro generale è più facile notare la contraddizione interna a questo meccanismo.
Viene tagliata la parola “morto” ed il verbo “morire” in tutte le sue coniugazioni, perché troppo forte da digerire per un bambino. Potrebbe allarmarsi. Vengono tagliate scene equivoche, supponendo che i piccoli potrebbero maturare convinzioni sbagliate, comportamenti deviati o poco corretti.
Si lavora sui nomi dei personaggi, ci si permette di cambiare il contenuto narrativo di una storia per togliere elementi troppo difficili o ritenuti moralmente discutibili come l’omosessualità, l’eccessiva promiscuità e le parole volgari.
Eppure, nonostante queste attenzioni, non si lavora mai sul contesto. La stessa moralità che guida verso queste attenzioni non sembra vietare le nudità dei programmi televisivi, i doppi sensi delle pubblicità o la durezza di film e telefilm, tutti prodotti facilmente raggiungibili dai bambini, alla pari di un cartone animato.
Si salvano le apparenze, ma non si agisce sulle meccaniche accusate di creare modelli falsi e privi di un reale valore, come i ragazzi di “Amici”, le “Veline” e altro…
Non vogliamo dare un giudizio sulla base di meglio e peggio, ma la contraddizione appare evidente. Si agisce sui cartoni animati, sui fumetti e su altre forme di comunicazione perché sono più deboli, più scollegate con quella parte di un mercato che evidentemente è troppo radicato e ricco per poter essere toccato.
La domanda successiva, per essere meno superficiali possibile, è se questa censura per proteggere i bambini dal linguaggio è utile, se funziona.
Ai bambini viene riconosciuta un’alta capacità di discernimento, lo stesso Gianni Rodari, nel corso dei suoi studi sul linguaggio dei bambini, aveva notato che per loro il piacere consiste nell’immaginare quelle parti che in un racconto vengono omesse, e nel partecipare loro stessi ai punti mancanti. Un bambino ha reazioni molto diverse di fronte a uno schiaffo dato da personaggio a personaggio sullo schermo, o a due sconosiuti che vicino a lui replicano la stessa scena.
Il motivo è quello che immaginiamo: i bambini riconoscono nello schermo, o nella carta, quel velo che da a ciò che vedono l’identità di “storia” e che quindi la pone su un piano che non è quello della realtà. Le storie sono autorizzate ad essere crudeli, a lavorare sulla fantasia e proporre lo spavento, la guerra, l’amore, l’amicizia. La realtà è tutt’altra cosa, ed è nell’attimo in cui un bambino termina di vivere nel suo sforzo immaginativo che torna ad essere più delicato.
A titolo personale vorrei concludere facendo notare che la magia di una storia è che la sua coerenza è tutta interna, e che allo spettatore arrivano solo gli echi delle emozioni dei personaggi, che lo mettono in condizione di riflettere su ciò che sta guardando senza esporlo a nessun rischio reale. Le storie, anche quando mostrano l’odio o la morte di un personaggio non sono mai negative, offrono spunti di riflessione e di dialogo, e l’esperienza dei personaggi diventa in parte la nostra.
Forse vietare una storia non è una soluzione. Forse è solo la via più facile per evitare dei problemi. Forse è giusto che un bambino possa star male per la morte di un personaggio, o che si chieda se è corretto o no che due personaggi stiano insieme. E forse questi sono gli argomenti che i genitori dovrebbero maturare con lui, per aiutarlo a farsi un’idea del mondo in cui vive.
Esistono molte storie per cui un bambino non è ancora pronto, è vero, ma in quel caso, parlando per intuito, direi che il telecomando è una soluzione molto più intuitiva e facile della censura.
ANIMAZIONE E FUMETTI GIAPPONESI di Ali
In Italia l’argomento fedeltà artistica di riproduzione delle opere di intrattenimento giapponesi è stato affrontato su due fronti diametralmente opposti.
Da una parte il circuito televisivo, nel quale la forbice ha sempre interpretato un ruolo molto attivo, dall’altra parte quello editoriale che, al contrario, ha giocato come prezioso elemento di attrattiva commerciale proprio la fedeltà artistica al modello originale. Esiste tuttavia un rapporto di causalità nel manifestarsi di queste due opposte condizioni, rapporto che può essere messo in luce attraverso un breve passo indietro nel tempo.
Nel corso degli anni ’80 (ma si potrebbe dire da ancora prima, verso la fine degli anni ’70) il circuito televisivo italiano vide il proliferare di serie anime. Era la cosiddetta e ben conosciuta invasione dei cartoni animati giapponesi. Tra una polemica e l’altra, che avevano fatto sparire gli anime dai canali Rai, verso la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, questo boom si era quasi del tutto placato: le reti televisive regionali avevano smesso di acquistare nuove serie televisive (anche per mancanza di materiale) e trasmettevano solo sporadiche repliche di prodotti più vecchi. Soltanto Mediaset (allora Fininvest) proseguì nella messa in onda delle sue rubriche per bambini quali Ciao Ciao e Bim Bum Bam mantenendo una certa regolarità nell’offerta di nuove serie animate. Fu così che l’enorme pubblico dei giovani fruitori di cartoni animati degli anni ’80, non avendo altro materiale tele-visivo verso cui concentrare la propria attenzione, si riversò in massa nella visione dei cartoni animati proposti da Fininvest. Da un punto di vista commerciale, la scelta di investire in prodotti sempre nuovi si dimostrò improvvisamente un grande successo ma si trascinò dietro anche alcuni grossi problemi.
Quando nel 1995 sul palinsesto di Italia 1 comparve Sailor Moon, il giovane pubblico dei cartoni animati, privo di reali alternative, lo premiò con cifre di share di grande impatto. Ed al passare di ogni episodio prima, e di ogni nuova serie televisiva dedicata all’eroina che veste alla marinara poi, il successo italiano di Sailor Moon non accennava a diminuire. Come per ogni clamoroso successo commerciale che si rispetti, iniziarono verso la metà degli anni ’90 le grandi polemiche, che dopo anni di silenzio tornarono a convergere sui fantomatici cartoni giapponesi. Sailor Moon, nato e trasmesso come ultimo esponente dell’ultradecennale genere delle “maghette” specificamente dedicato alle bambine, e tuttavia seguito da un pubblico eterogeneo e promiscuo, venne prima tacciato di creare disturbi di identità sessuale (!!!) nei piccoli spettatori maschi, quindi di essere violento o eccessivamente malizioso ed, infine, di suggerire comportamenti deviati negli adolescenti. In queste circostanze vennero interpellati psicologi ed analisti, si discusse delle implicazioni attinenti il successo di Sailor Moon nei salotti di svariate rubriche televisive ed i prototipi delle prime associazioni di genitori promossero una vera e propria crociata contro la guerriera lunare. In tale contesto di fuoco e fiamme, Mediaset dovette correre ai ripari: non volendo privarsi dei favorevoli ritorni economici garantiti da un grande successo come Sailor Moon, decise che era bene smorzare tutti quegli aspetti dello stesso anime contro i quali gli oppositori avevano mostrato particolare accanimento.
Fu così che lunghissime sequenze dell’anime vennero tagliate, eliminate del tutto o manipolate con la sovrapposizione di fermo immagini o zoom sulle tavole, fino a comportare massicce ed alquanto intrusive manovre di adattamento (es.: i cantanti che, con la trasformazione in guerriere, mutano sesso in donne vennero sdoppiati con l’ausilio di tre sorelle fittizie). Ma questa era solo la punta dell’iceberg. Per far fronte ad accuse fin troppo zelanti si rispose con altrettanto zelo, fino al limite del paradossale:
– in accordo ad una vecchia politica, i nomi di molti personaggi vennero totalmente stravolti ed italianizzati.
– qualunque elemento riconducibile ad un’ambientazione giapponese venne cancellato: gli yen, ad esempio, si trasformarono in lire e le inquadrature di testi o scritte in caratteri nipponici furono eliminate (esterofobia?).
– le background music cantate con testo giapponese furono doppiate o abolite (xenofobia?).
A quel punto ogni vincolo artistico o morale potè dirsi sopraffatto. Sentendo di aver sempre puntato su di sè l’occhio delle associazioni dei genitori -e non trovando oppositori alla propria opera censoria- Fininvest applico la propria politica di riadattamento sfrenato a tutte le serie che furono messe in onda a seguito di Sailor Moon, con risvolti a tratti inquietanti.
Gli episodi di talune serie (es.: Marmalade Boy) vennero smembrati fino al singolo frame per la ricostruzione tipo puzzle di episodi alternativi scritti dagli adattatori italiani appositamente per la propria messa in onda. I dialoghi, ovviamente, furono inventati. The Slayers – Next, serie fantasy originariamente in 26 episodi, vide ridotta a 24 puntate la propria serializzazione (delle ultime tre puntate venne fatto un collage condensato poi in un unico episodio). Nella stessa serie, su qualunque quadro si vedesse del sangue venne applicato un filtro non selettivo all’immagine, in modo che lo stesso sangue risultasse di colore verde (!).
Da questo punto di vista, la seconda metà degli anni ’90 ha visto succedersi i più alti livelli di totale sregolatezza nella gestione dell’adattamento. La situazione è andata pian piano migliorando ed attualmente l’opera censoria colpisce pesantemente solo gli aspetti più direttamente inerenti un vago concetto di “violenza”. Aspetti che tuttavia non si manifestano in numero tanto modesto, giacchè gli anime di azione hanno sempre molto seguito, e tuttavia necessitano allo stesso tempo di essere del tutto riconfezionati in chiave “sdrammatizzata”. Attualmente, scendendo nello specifico di qualche caso, la censura continua ad eliminare inderogabilmente qualunque frame in cui si veda del sangue e, qualora si tratti di frame del tutto ineliminabili, è sempre applicato un filtro, filtro che questa volta è localizzato al colore del sangue (reso marrone) e non esteso sull’intera tavola.
In secondo luogo, le parole “morire” o “uccidere” sono diventate tabù ed assolutamente non pronunciabili in sede di doppiaggio. Al loro posto si usano espressioni come “eliminare”, “togliere di mezzo” o “scomparire”, con risvolti alquanto grotteschi.
Se non altro, l’assurdo dei tagli ai caratteri giapponesi ed alle musiche ed, in parte, il nonsense dell’italianizzazione dei nomi sono andati quasi scomparendo.
A manifestare qualche lieve segno di crisi è invece la situazione in cui versano i manga, assolutamente rosea fino a qualche tempo fa.
Quando a metà degli anni ’90 i manga videro il boom che gli anime avevano conosciuto il decennio precedente, in prima linea nella pubblicazione di fumetti giapponesi vi era la casa editrice Star Comics. A dirigere le scelte editoriali della stessa casa erano (e sono ancora adesso) quattro grandissimi appassionati di arti visive e di cultura nipponica, noti sotto lo pseudonimo di “Kappa Boys”. I quattro ragazzi, accompagnati nel loro percorso di formazione dagli stessi anime del boom anni ‘80, presero immediatamente una posizione abbastanza chiara, schierandosi in toto dalla parte dei fan: massima fedeltà all’originale. Fu così che la rivista “Kappa Magazine” pubblicò in versione del tutto integrale il manga di Ghost in the Shell, a dispetto dell’edizione americana, epurata di alcune tavole a carattere sessuale. I Kappa Boys, tuttavia, mostrarono ben presto di non voler rimanere vincolati alla loro sfera editoriale e nel 1994 promossero la “Kappa Petizione”, una raccolta firme volta a suggerire un decreto legge per la tutela dell’integrità dell’animazione e del fumetto in generale, la prima non ancora entrata nel suo periodo più buio. La petizione, sfortunatamente, non raggiunse il numero di firme necessarie e si concluse con un nulla di fatto. Come un moderato segno di protesta, tuttavia, su Sailor Moon -manga pubblicato dalla stessa Star Comics- comparvero da un mese ad un altro i nomi originali dei personaggi, che presero il posto dei nomi televisivi, per i quali si era optato in prima sede di pubblicazione. Attualmente, a distanza di più di dieci anni da questi eventi, i diritti di pubblicazione di Sailor Moon al di fuori del Giappone sono bloccati per volere dell’autrice, la quale, conscia delle profonde e non autorizzate modifiche apportate internazionalmente al suo anime, sembra aver preso particolarmente a cuore la tutela artistica della sua creatura.
Nient’affatto scoraggiati dall’insuccesso della Kappa Petizione, i Kappa Boys proseguirono nella loro politica editoriale. Alcuni anni più tardi, sfruttando la forte ascesa commerciale del prodotto manga, riproposero la Kappa Petizione. I risultati furono decisamente migliori della volta precedente, ma ancora non sufficienti ad ottenere risultati concreti. Nuovamente sconfitti da cause di forza maggiore, i Kappa Boys non poterono fare altro che tornare a contenere le loro aspirazioni negli argini del settore editoriale. Poco più tardi, tuttavia, si concretizzarono ulteriori problemi anche in esso. La fine degli anni ’90 vide il ritorno sul circuito televisivo del fantomatico ed arcinoto Dragon Ball (ovviamente in chiave “rielaborata”), il re indiscusso degli anime commerciali per bambini. Il successo fu ancora una volta clamoroso. Per assecondare questo grande successo, la Star Comics inaugurò immediatamente la pubblicazione dell’anime comic di Dragon Ball, privo, come di consueto, della seppur minima alterazione. In questo caso, tuttavia, si ripetè la storia di Sailor Moon: il successo dell’opera si sposò perfettamente con il desiderio di farsi pubblicità attraverso polemiche gratuite ed infruttuose, ma di grande ritorno mediatico. All’atto pratico, Dragon Ball venne accusato nientemeno che di istigazione alla pedofilia dall’associazione “Cittadinanzattiva” che inviò un esposto alla Procura della Repubblica puntando il dito contro una scena a carattere boccaccesco dell’anime comic. Nonostante la mancanza di ripercussioni legali nei confronti della Star Comics, i Kappa Boys ricevettero dall’alto l’ordine di far sì che una cosa del genere non si ripetesse. Fu così che nella vignetta incriminata della ristampa dell’anime comic comparvero dei pesanti cerchi neri di coprente e tutte le testate Star adottarono in copertina la seguente dicitura: “Tutti i personaggi presenti in questo albo sono maggiorenni, e comunque non si tratta di persone realmente esistenti bensì di semplici e innocue rappresentazioni grafiche. Ma va’…?!”.
Neanche a dirlo, questi provvedimenti non furono sufficienti. Due anni dopo, nel 2002, la procura di Genova passò per competenza alla Procura di Perugia una copia della nuova edizione (censurata) dell’anime comic di Dragon Ball, indicando la stessa vignetta come oggetto della medesima accusa di pedofilia e chiedendo il sequestro dell’albo dalle edicole (operazione impossibile: Dragon Ball era già andato esaurito ovunque). Rendendosi conto che la questione avrebbe potuto ripetersi ancora un numero ennesimo di volte, i Kappa Boys decisero di intervenire in modo drastico nella terza edizione del loro manga più venduto, con uno stile di revisione pari a quello Mediaset: eliminarono i bollini neri e riadattarono disegni e dialoghi cancellando la componente osè. Fortunatamente l’operazione si rivelò risolutiva e la pubblicazione della quarta ristampa di Dragon Ball procede senza inconvenienti. L’evento, tuttavia, destò grande scalpore tra i fan e, a quanto pare, anche tra gli addetti ai lavori.
L’altro caso, benché molto meno eclatante, di censura ad un opera manga che si ricorda, venne svolto infatti in sede preventiva, evidentemente a carattere autotutelativo.
Il manga intitolato Ludwig è un’opera interamente giocata da una parte sullo humour (nero), dall’altra sul totalmente disincantato: attraverso una narrazione un po’ cruda e truce vengono così reinterpretati in chiave realistica gli aspetti più edulcorati di alcune fiabe. In questo caso, il retino nero della censura ha oscurato due tavole (ed i dialoghi sono stati rimaneggiati in cinque punti per adattarsi alla nuova veste grafica), una delle quali ritenuta particolarmente problematica. Nella versione originale di quest’ultima si vede infatti una giovanissima Biancaneve (Blanche Neige) in leggero desabiè in atti ambigui con un altro personaggio adulto, il re, patrigno della stessa Biancaneve. Ovviamente è a causa di queste avances di Biancaneve –e della benevolenza del re così conquistata- che ella attira su di sé le ire della madre, la regina, che travestitasi da strega tenta poi di avvelenarla. In questo caso la legittimità della censura può essere a lungo dibattuta, tuttavia i fan hanno ampiamente manifestato il loro scontento e sollevato inquietanti interrogativi:
– Perché il lettore non viene avvertito di trovarsi a leggere un’edizione non conforme all’originale?
– Se il reparto manga di Panini Comics non è solito fornire avvertimenti, quante e quali alterazioni sono passate inosservate e/o dovremo aspettarci per il futuro?
– Invece che la dicitura “Adatta ad un pubblico maturo” (che non ha valenza legale) e certe complicazioni artistiche, un semplice “Vietato ai minori di anni 18” non avrebbe reso le cose molto più semplici?