“MPD-Psycho”

Tempo fa un amico del GAF mi prestò uno scatolone pieno di manghetti random di Dynamic e Panini.

Ho letto “MPD-Psycho” della coppia Eiji Otsuka e Shou Tajima, che era tra quegli stessi manga.

Caso più unico che raro, questo post mi vedrà intervenire solo in minima parte: lascio la parola alle parti più significative di una lettera che si trovava nella posta della suddetta testata, perchè traspone al 101% il mio stesso pensiero.

“Mi aspettavo un intrattenimento di qualità, non una lunga lirica su pornografia e violenza. […] Penso di non aver mai visto tanto autocompiacimento del sadismo come in questo fumetto, tanta esaltazione del macabro e della parte oscura dell’animo umano. “Crudezza” è solo una parola, in questo caso poco azzeccata per descrivere quest’opera. La pretesa di realismo dell’autore è totalmente di maniera, data la ricercatezza e la cura maniacale con cui sono resi i dettagli più scabrosi, dettagli che nemmeno nella sopracitata realtà sono così vividi e scabrosi. Non mi era mai capitato di essere usato come pattumiera delle umane brutture, per giunta pagando! […] Mi auguro che questo titolo sia un fiasco totale, altrimenti sarebbe la conferma che molti fruitori di manga non sono niente più che dei repressi, in attesa che qualcuno gli getti in faccia della frattaglie sanguinolenti”.

A coda, ribadisco quanto detto sopra: la violenza, la crudezza, qualunque forma di perversione, di disgusto e di condizione disumana, sono disposto ad accettarle (anzi, trovo che siano ottimi mezzi per aprirsi la mente ed annichilire tanto di quel moralismo da due soldi che gira nell’odierna società) ma tutto ciò deve essere un MEZZO per qualcos’altro, non un FINE.
Cosa che per l’appunto, in “MPD-Psycho”, non è.

Ancora una piccola precisazione: che i fruitori di manga siano dei repressi è molto probabile, ma il loro target di età (diciamo 20-25 anni per “MPD-Psycho”) potrebbe costituire una parziale giustificazione a ciò. Entro una certa soglia giovanile non è detto, infatti, che si possa disporre dei mezzi e degli strumenti sociali, economici e comportamentali per superare tale condizione mentale.
E comunque l’essere repressi è soltanto la manifestazione più negativa della condizione più stringente di un aspetto che coinvolge QUALUNQUE spettatore: l’immedesimazione. Il cinema (e qualunque forma di intrattenimento visivo) non può mai essere vissuto in modo del tutto distaccato, ciò che ci porta ad emozionarci è spesso il tono eroistico di azioni, situazioni o personaggi, ovvero il compimento di qualcosa che sia potenzialmente al di fuori della nostra portata, sia in una forma liberatoria di sfogo che in forma di proiezione della propria sfera fantastica individuale. Il problema è proprio questo: con l’assestamento di tale sfera dovuto all’impatto con la società circostante, lo spettatore trova solitamente il punto di equilibrio tra immedesimazione e distacco.
Tutto ciò per dire che trovo molto meno degradante un ragazzo della mia età che che va matto solo per questi manga poverelli tutti sangue ed azione, piuttosto che una casalinga quarantenne che proietta la sua esistenza in quella di Brooke Logan guardando “Beautiful”.

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